James Ellroy ha rovesciato, come un guanto troppo lindo ed elegante per essere indossato nelle strade del crimine, la letteratura noir. Libro dopo libro ha inchiodato gli autori più osannati alla loro leziosità mal camuffata, ha messo a nudo il tenero cuore di signorina celato nei petti di investigatori fintamente duri, ha ridicolizzato la pretesa degli epigoni di Hammett di riportare il delitto nel proprio ambiente naturale, la strada, ma lo ha fatto solo dopo averla rimaneggiata fino a farne un kindergarten.

La missione di restituire al male la sua verità, invece, lo scrittore californiano l’ha compiuta davvero: ha ridato al crimine la sua cruda violenza, la puzza di viscere squarciate, la visione urticante di corpi fatti a pezzi. Ha reso ai malvagi la loro complessità tenebrosa, la loro lacerata realtà.

L’autore del LA Quartet e della trilogia Underworld Usa ha polverizzato i canoni del noir, rendendo improponibile e obsoleto quasi tutto quel che era stato scritto prima di lui. Però così facendo, non senza paradossi, ha realizzato l’ambizione nascosta sin dalle origini e mai completamente soddisfatta del noir: ne ha fatto un genere letterario capace di sfondare i proprio stessi confini per dilagare nei territori stranieri del romanzo storico, della sperimentazione stilistica d’avanguardia, sfondando nell’approfondimento non solo psicologico, ma morale e esistenziale dei personaggi.

In Perfidia (Stile libero, traduzione di Alfredo Colitto, pp. 890, euro 22,00), il suo nuovo e fluviale romanzo c’è tutto questo, ma rimodellato con piena originalità, perché la grandezza di James Ellroy sta anche nel non scrivere mai lo stesso romanzo, nel non ripetersi, sfidando a ogni uscita il rischio di deludere i lettori. Se il ritmo di Perfidia è meno esasperato e impervio di quello dei libri più azzardati, come White Jazz o Sei pezzi da mille, è solo perché l’autore ha spostato la scommessa su un altro tavolo, provando come mai in precedenza a scandagliare gli animi abissali e tortuosi dei suoi personaggi. Dietro la facciata, peraltro non fittizia, del romanzo d’azione, Perfidia è di gran lunga il libro di fiction più introspettivo che Ellroy abbia mai scritto.

Il romanzo ha inizio il 6 dicembre 1941, giorno precedente l’attacco giapponese a Pearl Harbor e prosegue nei ventitre giorni successivi all’entrata in guerra dell’America che, nonostante gli abbondanti segnali, colse di sorpresa la massa dei suoi cittadini. Racconta, senza concedere alibi o giustificazioni, l’internamento coatto di decine di migliaia di cittadini americani di origine giapponese, nella stragrande maggioranza dei casi senza alcuna motivazione reale. La deportazione riguardò tutti gli Stati dell’Unione, ma in ciascuno fu calibrata diversamente. La California si dimostrò particolarmente solerte.

[do action=”citazione”]Ellroy è un reazionario orgoglioso e conclamato.[/do]

Ma il suo non è il primo caso di autore «di destra» che riesce a svelare i guasti e i peccati del paese o del sistema sociale che difende con una efficacia negata a chi pratica la denuncia per mestiere e per fede politica.

La sua passione storica lo spinge puntualmente a riscoprire e riportare alla luce gli episodi minori, dimenticati o quasi, che costellano la storia degli Stati Uniti e in particolare di Los Angeles. Del resto, questa America che si accinge a entrare controvoglia in guerra di ombre ne presenta sin troppe: è un Paese venato di antisemitismo e razzismo, fondamentalmente isolazionista, in cui la simpatia per le potenze dell’Asse è diffusa.

I personaggi di Perfidia sono un esercito: molti realmente esistiti, moltissimi già apparsi o nella prima tetralogia, ambientata a L.A. tra il 1946 e il ’59, o nella successiva trilogia. I protagonisti sono quattro: uno, il chimico forense di origine giapponese Hideo Ashida, compare per la prima volta; un altro è William H. Parker, famosissimo e discusso comandante alcolizzato del Los Angeles Police Department dal 1950 al ’66, rappresentato qui nella fase della sua molto contrastata ascesa. Gli altri due personaggi principali avevano già occupato postazioni centrali nei romanzi precedenti: Kay Lake è la ragazza di Dalia Nera, Dudley Smith, il «cattivo» tanto geniale quanto feroce del primo Quartet. Il cuore del romanzo sono loro, perché, Perfidia è, più di ogni altro libro di James Ellroy, centrato sui personaggi: sulla loro ambiguità morale, sulle loro contraddizioni profondissime e insanabili, sui peccati, i tradimenti, l’ ansia di redenzione. Soprattutto sulle loro ossessioni, perché in fondo proprio questo è il vero tema onnipresente in Ellroy, la cifra comune a tutti i suoi personaggi, incluso, ora, quella specie di Darth Vader in giacca e fondina, che era nei romanzi precedenti Dudley Smith, qui una figura infinitamente più complessa e tragica. L’ossessione, per ciascuno di loro, è un oggetto del desiderio amoroso, etero o omosessuale: comunque amori impossibili che lo scrittore adopera come un grimaldello per forzare l’animo tortuoso dei suoi antieroi e metterne a nudo la fragilità.

È la guerra a mettere i protagonisti in contatto tra loro e offrire la possibilità di incrociare l’oggetto della loro ossessione amorosa. Inatteso, lo scoppio improvviso della guerra spezza ogni consuetudine, diffonde emotività e fermento, travolge le barriere consuete. Solo nei giorni ebbri di entusiasmo e paura, dopo l’attacco di Pearl Harbor, una diva come Bette Davis può ritrovarsi invischiata in una vicenda che rischia di sconfinare nell’amore con un poliziotto irlandese violento e corrotto. Solo il senso di urgenza e liberazione provocato dal conflitto permette a due provinciali dotati entrambi di talento, ambizione e fragilità, ma avviati su percorsi opposti, ossia William Parker, il poliziotto moralista e alcolizzato e Kay Lake, di incontrarsi, sebbene per un attimo. La guerra è presente in ogni riga di Perfidia, e lo resterà probabilmente anche nei successivi tre romanzi di questo nuovo L.A. Quartet.

Il ciclo dovrebbe infatti finire esattamente dove comincia quello precedente: nel 1946.

L’obiettivo dichiarato dell’autore è concludere la parabola segreta di trent’anni di storia americana dal 1942 al ’72. Non è un periodo scelto a caso. La fase che ha inizio il 7 dicembre 1941 e termina con i primi bagliori del Watergate è quella dell’ascesa dell’egemonia americana nel mondo: l’età d’oro degli Stati Uniti.

L’ironia della letteratura ha voluto che proprio allo scrittore forse più sciovinista oggi presente in America sia toccato il compito di rivelare e raccontare il lato oscuro di quell’età dell’oro.