Pubblicato nel 1994, prima a puntate sul prestigioso New Yorker, poi in volume, The End of Vandalism è il primo romanzo di Tom Drury, capitolo inaugurale di una trilogia che, non diversamente da quella ben più celebre di Holt, firmata da Kent Haruf, immerge fin dall’incipit il lettore nel cuore del Midwest rurale, in una contea composta di tante, minuscole cittadine, a ciascuna delle quali corrisponde un microcosmo di vite banali eppure luminose e capaci di accensioni ed epifanie che lasciano stupiti e turbati. Non sorprende dunque che sia stata proprio NN, la casa editrice alla quale si deve il lancio e il clamoroso successo di Haruf, a proporre l’opera di Drury ai lettori italiani, con il titolo – fedele – La fine dei vandalismi, e nella traduzione limpida ed elegante di Gianni Pannofino (pp. 240, euro  19,00), che si era già confrontato, negli scorsi anni, con alcune delle voci più importanti della narrativa americana contemporanea, da Vollmann a Lethem.

La cosiddetta «Trilogia di Grouse County» è proseguita nel 2000 con il secondo capitolo, Hunts in Dreams, per poi concludersi, nel 2013, con Pacific. La produzione narrativa di Drury è però ben più ampia, e non ha mai esitato a guardare anche altrove, aggiungendo capitoli preziosi a un percorso d’autore tra i più interessanti degli ultimi anni: magnifici, infatti, sono tanto l’errabondo The Black Brook, del 1998, ambientato tra Canada, Nordovest degli Stati Uniti ed Europa, quanto The Driftless Area, del 2006, storia di vendetta e violenza che contiene pagine di inarrivabile tensione. Eppure, a più di vent’anni di distanza dall’esordio, e nonostante un autentico plebiscito da parte di critici e colleghi scrittori, quella di Drury rimane una voce minore, preziosa ma in grado, almeno finora, di attingere a un pubblico assai ridotto.

La ragione di questa marginalità, sempre ammesso che sia possibile trovarne una, va cercata nel romanzo di esordio, e forse partendo proprio dalle sue innegabili virtù. La fine dei vandalismi è un libro molto facile da raccontare: la trama, che si svolge in un breve torno di anni, ruota attorno alle vite di Dan Norman, lo sceriffo della contea di Grouse, e di Louise Darling, con la quale si sposerà dopo pochi capitoli, avviando una convivenza difficile, carica di reciproche reticenze e segnata da eventi dolorosi, separazioni, ma anche da momenti di dolcezza e umana comprensione.

Attorno ai protagonisti ruota un microcosmo popolato di personaggi tratteggiati con una sicurezza, una precisione di toni e un’empatia di cui è raro trovare l’eguale: primi fra tutti Mary, la madre stramba e bisbetica di Louise, e Tiny Darling, il suo ex marito, un uomo senza arte né parte che vive di lavoretti occasionali e piccoli furti. Il meglio di sé, Drury lo offre nei dialoghi, grazie a una capacità davvero prodigiosa di rendere ogni voce inconfondibile e autentica, senza mai cadere nella tentazione dell’exemplum e soffermandosi, con effetti di sottile umorismo e sconfinamenti quasi ioneschiani, sulle idiosincrasie di ciascuno.
Emblematico il primo incontro tra Louise e la madre, e lo strano bastone da passeggio che Mary esibisce, non senza orgoglio: «Mary porse il bastone a Louise: sull’impugnatura c’era un serpente disegnato con il pirografo. “Me l’ha dato Hans Cook” rispose. Si infilò un giubbotto granata con la cerniera e se lo chiuse fin sotto il mento. “Stava riportando indietro il suo camion dall’Ohio e si è fermato a visitare delle grotte. C’era un museo con certe piccole capanne in cui si vedevano delle scene di vita indiana”. Louise osservò il bastone. “Che cosa te ne fai di un bastone? Quando squilla il telefono, vai a rispondere di corsa!”. “Il telefono non squilla”. In realtà il telefono di Mary squillava spesso».
Non ci sono grandi gesti, nobiltà esibite, eroismi, e neppure esplosioni di crudeltà o violenza incontrollata, nella Contea di Grouse. Molte delle cittadine di cui si compone, a cominciare dalla Grafton in cui vivono Dan e Louise, sono quasi insignificanti, ridotte a poche case antiche, che conservano tracce residue di una gloria ormai svanita, e a tante roulotte e case su ruote, come quella nella quale Dan ha trascorso buona parte della sua esistenza prima di trasferirsi da Louise, in una fattoria cui stenterà ad adattarsi, soffrendo a lungo di insonnia, e per ragioni tanto più significative quanto più rimangono misteriose e inattingibili. La vita scorre di giorno in giorno, scandita da eventi relativamente irrilevanti: feste o recite studentesche, battute di caccia o di pesca, le nuove elezioni alla carica di sceriffo, le riunioni del consiglio comunale o del comitato dei supervisori della contea, che discutono di cani o discariche.

Nulla cambia, e al tempo stesso tutto cambia: è come se la terra, e il tenace attaccamento degli uomini e delle donne ai luoghi in cui sono cresciuti e ai quali, inevitabilmente, si ostinano a fare ritorno, subissero un progressivo prosciugamento. La Grouse County, ci viene comunicato a metà circa del romanzo, «era già, di suo, scombinata. Le aziende agricole a conduzione familiare sembravano scomparse e non erano state sostituite da idee altrettanto convincenti».
L’Iowa nel quale si svolge La fine dei vandalismi è in una certa misura identico a se stesso, eppure reca i segni inevitabili del cambiamento, e della dispersione. Dove un tempo c’erano negozi, scuole, carceri, ora rimangono quasi soltanto case, e terra. Drury racconta la continuità e la trasformazione calandoli direttamente nelle parole e nei gesti dei suoi personaggi, con una varietà di registri che gli consente di spaziare da scene di irresistibile buffoneria ad altre asciutte e dolenti come quella in cui Dan Norman, reduce da un evento luttuoso (che non anticipiamo), trasferisce sul mondo che continua a muoverglisi attorno tutta la propria muta desolazione: «Dan lasciò la stanza e la porta si richiuse alle sue spalle. In corridoio guardò dalla finestra il parcheggio sottostante. Gli alberi ondeggiavano cupi, e la pioggia picchiettava sul vetro. Un’auto svoltò lentamente sull’asfalto. C’era una fila di luci sull’erba accanto alla strada, e quando l’auto se ne andò le luci si spensero una alla volta».

Questi, dunque, i tanti meriti di Drury e della sua scrittura: troppo minimale e ironica, troppo poco esemplare, forse, per spiccare adeguatamente nel contesto degli anni Novanta, dominati dalla pirotecnia di Wallace e Eggers, o dalla vastità di sguardo e dall’ambizione dei grandi romanzi che, da Pastorale americana e Underworld a Le correzioni, hanno tracciato le coordinate di un nuovo, possibile canone americano.
Eppure, ostinatamente e per quasi vent’anni, questo scrittore schivo ha continuato a tornare alla sua contea persa nel cuore dell’America, e ad affinarne le storie e le voci. Rimane solo da auspicare che, dopo i tanti, forse troppi encomi riservati ai grandi romanzi e alle saghe famigliari, anche le storie della Grouse County trovino finalmente lo spazio e l’attenzione che meritano.