È difficile pensare al cinema di Alain Resnais senza tenere conto del suo amore dichiarato per i fumetti. Fosse stato per lui, forse il suo primo lungometraggio sarebbe stato il western Red Ryder basato sulla striscia di Fred Harman del 1938. Invece due anni dopo, nel 1959, fu Hiroshima mon amour, grande rivelazione all’epoca al festival di Cannes. Ma quell’onda nuova che si abbatté sulla spiaggia della Croisette aveva le nuvolette nel proprio genoma, tant’è che l’anno dopo anche Jean-Luc Godard rese omaggio alle bandes dessinées nel suo film manifesto Fino all’ultimo respiro. Il protagonista interpretato da Jean Paul Belmondo che legge un giornale con strisce a tutta pagina è una dichiarazione d’amore per il cugino cartaceo.

È vero che il cinema della Nouvelle Vague adottò ed adattò stilemi e linguaggi propri del fumetto. Si pensi alle spericolate inquadrature dall’alto, ai primi piani dei personaggi rivolti al pubblico fino al montaggio spiazzante e repentino per jump cut, tagli netti discontinui o, se si preferisce, sequenze interrotte che suggeriscono il salto visivo che fa il lettore da una vignetta all’altra.

«Quello che so di cinema, l’ho appreso dai ‘comics’. Le regole di découpage e del montaggio sono le stesse» affermò Resnais nel febbraio 1960 alla rivista Image et Son. «Ben prima del cinema, i ‘comics’ hanno utilizzato il ‘scope’, e hanno sempre potuto cambiare il formato. Lo stesso per il colore, sanno utilizzarlo a fini drammatici. Altri procedimenti andrebbero sottolineati. Per esempio, il modo di mettere in evidenza un personaggio staccandolo su un fondo unito». Sarà anche per questo che ne La Guerra è finita del 1966 il regista Nouvelle Vague fuori corrente mette uno sfondo nero dietro ai suoi personaggi, come nei fumetti. Resnais, del resto, era cresciuto con i fumetti, da Les Pieds nickelés a Superman, da Flash Gordon a Dick Tracy, il suo preferito assieme a Mandrake che collezionava. Condivideva questa passione per le bandes dessinées con Chris Marker. Tuttavia Resnais assimilava e interiorizzava il linguaggio dei comics, in parte simile ma di fatto molto diverso da quello cinematografico, e lo declinava per la sua esperienza filmica, anche se tendenzialmente non mescolava i diversi ambiti. In questo modo, si spiegherebbe anche il suo rifiuto a un produttore italiano di girare un film su Mandrake.

Resnais e la Nouvelle Vague (non per forza da abbinare) dettero un vero impulso alla compenetrazione e crescita reciproca dei due linguaggi narrativi visivi. Con gli anni ’60, infatti, scatta un nuovo cinema dal vero, sicuramente fecondato, influenzato, contaminato, modificato non soltanto dall’immaginario delle strisce, ma dal loro linguaggio. Godard e Resnais dichiaravano apertamente la loro formazione fumettistica e si vedeva, così pure nel free cinema inglese di Richardson e Lester.

Come nei funnies quotidiani, il settecentesco Tom Jones nella giovane interpretazione di Albert Finney nei «swinging 60s» minuetta e cavalca fra siparietti, strizzatine d’occhio allo spettatore, fermi-immagine e accelerazioni repentine, mentre i Beatles soprattutto con Help! subiscono trattamenti foto/grafici manuali che in qualche modo anticipano la loro totale trasformazione in disegni animati con Yellow Submarine.