Di fronte ad «eventi estremi» che diventano sempre più frequenti usiamo, a partire dall’Occidente, sempre più la tecnologia energivora per difenderci dalle ondate di caldo e freddo, e quindi immettiamo ancora più gas serra. In breve, di fronte ai picchi di caldo di questa estate abbiamo usato a dismisura i condizionatori incrementando vertiginosamente la quantità di petrolio che viene bruciata. Per averne un’idea basti pensare che in Italia, confrontando i consumi elettrici della giornata di lunedì 1 luglio, dove la temperatura ha toccato o superato la soglia dei 40 gradi in diverse città, e del lunedì successivo, quando la temperatura era scesa mediamente di 4-5 gradi, utilizzando i dati Terna è stato stimato un incremento di consumo di petrolio di 50.000 ton!

SE LO STESSO CALCOLO LO ESTENDIAMO al resto del pianeta arriviamo a cifre da capogiro. E questo anche perché quando ci sono picchi di richiesta di energia le rinnovabili non possono rispondere adeguatamente, mentre la strada più semplice è quella di bruciare più petrolio o gas. Lo stesso avviene d’inverno durante i picchi di freddo e gelo, con caminetti e impianti a gas e gasolio che vanno al massimo per 24 ore su 24, in tutte le aree del mondo dove c’è una classe media che può permetterselo. Cosa ancora più grave è che lo squilibrio dell’ecosistema sta portando ad abbattere i limiti «millenari» dentro cui si erano contenute le temperature nel pianeta. Questo significa che nei prossimi anni avremo sempre più spesso temperature record, sia verso l’alto che verso il basso, nonché sbalzi improvvisi con passaggio da temperature estive a invernali, e viceversa, in poco tempo.

NON SOLO ESSERI UMANI MA ANCHE ANIMALI e piante ne risentiranno con un impatto enorme sull’agricoltura tradizionale e contadina e una accelerazione delle coltivazioni in serra, anch’esse energivore, e un vertiginoso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità (a partire dall’acqua potabile). In breve, il mutamento climatico si riproduce ad un livello sempre più alto e devastante per via della risposta che la nostra società ad oggi è in grado di dare. Se non mutiamo atteggiamento e cambiamo rotta, allora tra qualche decennio lo scenario inevitabile sarà questo: potranno resistere al mutamento climatico solo le classi sociali medio-alte, il resto sarà destinato all’estinzione. Del resto, un preavviso l’abbiamo già avuto nell’estate del 2003 in Francia dove l’ondata di calore anomalo fece morire 25.000 persone, anziane, malate, e, soprattutto, povere. Ma anche i più ricchi non se la passeranno bene: prima di scomparire gli «esclusi» assaliranno i quartieri bene presidiati da body guard armati per accedere a quei beni vitali che gli sono negati. Dunque, come sopravvivere agli «eventi estremi».

NELL’ERA TECNOLOGICA, QUANDO la società umana è arrivata a scoprire i segreti della materia, a controllare ed usare i flussi di elettroni , a riempire lo spazio con migliaia di satelliti, a inventare nanotecnologie che hanno fatto fare passi da gigante a tutte le discipline scientifiche, proprio in questa fase della storia umana ci troviamo a dovere affrontare «eventi estremi», imprevedibili, spesso insostenibili. Abituati come siamo a pre-vedere, a programmare le nostre attività quanto la nostra vita, mal sopportiamo di dover fare i conti con l’imprevedibile: l’uomo oeconomicus-tecnologico si trova spaesato, perde le sue coordinate, le sue certezze. Non siamo abituati a prendere in considerazione gli «eventi estremi», le code della curva di Gauss per gli specialisti, perché la nostra società industrializzata è stata costruita sulla prevedibilità, sul potere della tecnologia di comprendere e dominare la Natura.

MA, DOBBIAMO PRENDERE ATTO CHE è finita l’era delle certezze e siamo di fronte ad una strada stretta che il Nobel Prigogine aveva a suo tempo ben individuato nell’indicare il passaggio tra due grandi scogli : «Quello di un mondo governato da leggi che non lasciano nessun posto agli eventi, e quella di un mondo assurdo, a casuale, in cui non si può prevedere né descrive nulla in termini generali» (I. Prigogine, La fin des certitudes. Temps, chaos et les lois de la nature, Peris, 1996, p. 177). E non è facile trovare una «terza via» che ci porti fuori dal determinismo scientista quanto dal nichilismo/fatalismo che sono ancora atteggiamenti prevalenti : il mito di Prometeo e l’attesa impotente dell’Apocalisse.
Il primo, malgrado le sconfitte subite, continua ad essere un mito che si basa sulle conquiste continue della scienza e, soprattutto, della tecnologia. In questa visione del mondo non esistono limiti umani, ma ogni grave problema dell’umanità potrà essere risolto con il progresso tecnologico. Così ogni problema ambientale, dall’inquinamento agli eventi estremi, può essere affrontato e risolto con più tecnologia. E’ in fondo quello che praticano e predicano le grandi imprese multinazionali che sulle green tecnologie hanno costruito le filiere del nuovo business. Emblematico è il caso delle api. Dato che l’Apis mellifera (grande produttrice di miele) è in forte declino ed a rischio d’estinzione (negli Usa la metà è scomparsa) a causa dell’inquinamento legato all’agricoltura industrializzata, gli scienziati stanno addestrando altri tipi di ape a trasportare i pollini e stanno studiando, attraverso le modificazioni genetiche, i mutamenti nel loro comportamento.

IL SECONDO ATTEGGIAMENTO, porta a rifugiarsi nel filone «apocalittico» che attraversa tutta la Bibbia ed arriva fino a noi: l’idea che l’uomo non può fare niente se non leggere i «segni dei tempi» e capire quando arriverà la fine. Una visione del mondo che tende a convergere con quella di una parte estrema del mondo ambientalista che pensa che la Natura si stia vendicando ed è molto più forte di noi e ci distruggerà. Tale atteggiamento sterilizza ogni volontà di cambiamento, lascia che il mondo vada verso il suo destino, cercando ognuno di ricavarsi la propria nicchia ecologica (magari comprando prodotti bio e vivendo in aree poco inquinate) in attesa del disastro finale. L’opposto del filone «profetico» del Vecchio Testamento che invita l’uomo alla «conversione/responsabilizzazione» di fronte ai disastri naturali e sociali di ogni tempo. Ed è proprio la fuga dalla responsabilità che caratterizza la nostra epoca, che è poi l’altra faccia di quella fuga dalla libertà che aveva denunciato mezzo secolo fa Eric Fromm. Ed essere oggi responsabili verso sé stessi e la nostra società significa fare i conti con l’azione politica, strumento fondamentale per affrontare questi nuovi fenomeni.
GLI EVENTI ESTREMI, INFATTI, ci interrogano e ci stimolano a cambiare rotta. Anzi, ci obbligano a ripensare alle priorità: la manutenzione ordinaria e straordinaria del territorio, innanzitutto, in modo di essere preparati agli «eventi estremi» e ridurre i danni al minimo possibile. E poi : sistemi di preallarme efficienti (pensiamo a Cuba ed a quante vite umane il sistema cubano ha risparmiato), che impediscano che si ripeta una tragedia come quella che dieci anni fa provocò una ecatombe nel sud-asiatico, un’altra pianificazione del territorio che metta al primo posto la sicurezza, ed al contempo il risparmio di suolo. Insomma, semplicemente un altro modo di vivere, produrre e consumare che sia «resiliente» rispetto ai grandi cambiamenti indotti nell’ecosistema, come più volte invita a fare la «guida» Viale su questo giornale.