Dalla tradizione popolare, al rap passando per il pop e la canzone d’autore. Per Lucio Leoni, classe 1981, la musica è un universo talmente variegato che è impossibile porsi dei confini. Dove sei pt.1 (Lapidarie Incisioni- Black Candy) è il suo terzo album, diviso in due capitoli: otto canzoni escono oggi e otto in autunno. Un approccio sonoro che si affida alle improvvisazioni, ispirato al mondo dello spoken word e delle poetry slam – coordinato egregiamente dai fiati di Marco Colonna e Giorgio Distante, la batteria di Lorenzo Lemme, le chitarre di Daniele Borsato e le tastiere di Nicoletta Nardi.

Un nuovo disco ai tempi del Covid-19 quando in molti preferiscono posticipare le uscite. Cosa spinge un artista a rischiare?

Fare dischi era un rischio anche prima, considerati anche gli scarsi ngressi economici per musicisti mediamente piccoli come me. Io non riempio gli stadi, per cui realizzare un album è una spesa non indifferente che non sempre riesco a recuperare. Per quanto riguarda la situazione, mi sono chiesto se valesse la pena aspettare perché il mercato reale della musica è quello dal vivo, i dischi hanno un peso relativo. Mi è sembrato fosse giusto testimoniare il fatto che, in qualche modo, la vita va avanti e così le produzioni. Mi sono anche interrogato sul tema dibattuto dell’inutilità dell’arte e – ammetto la provocazione – forse un grado di inutilità noi artisti l’abbiamo. E non è una cosa grave, bisogna anche sapersi riconoscere inutili e stare un po’ in silenzio. Quello che non è inutile è la produzione pregressa, che in un momento così contribuisce a dare svago, distrazione, spunti diversi a chi è costretto dentro casa.

«Dove sei», il titolo, può essere interpretato in vari modi. Può assumere un significato di resilienza o di riflessione sul futuro…

Punto di vista interessante: al disco lavoro da tempo e confrontarsi con i tempi che cambiano e possono assumere valenza diversa, è stimolante. È il linguaggio che si plasma sul momento, e quello che io ho utilizzato per raccontare qualcosa adesso probabilmente racconta altro.

«Il fraintendimento di John Cage», che ha anticipato l’album a marzo, come è nata?

Da una grande passione che mi porto dietro da tempo per questo compositore, ma sarebbe più giusto definirlo intellettuale. Da un punto di vista formale mi ha insegnato tantissimo sul rapporto tra gli spazi vuoti e gli spazi pieni, che è diventato il mio approccio quando mi trovo a comporre e arrangiare. Mi piace avere a che fare e impegnarmi a lavorare sulle dinamiche. Trovo sia uno dei passaggi emotivi più importanti all’interno della musica, e non solo. Nel testo racconto le difficoltà del processo di crescita: le strade da prendere sono tante e non sempre fai la scelta giusta. John Cage era perfetto come metafora: ha lavorato a così tante teorie che spesso e volentieri è stato male interpretato.

Liriche poco autoreferenziali aperte invece al confronto con chi ascolta. L’approccio ironico di un pezzo come «San Gennaro» nasconde tematiche spirituali…

Fa parte del mio carattere: mi pongo domande ma dare risposte ritengo sia il ruolo di chi si occupa di scrivere o giudicare la mia opera. Mi incuriosisce molto il fatto che l’essere umano ha sempre avuto bisogno di una spiegazione per ogni fenomeno, da quelli atmosferici a quelli più basici. Cercando oltre la propria dimensione, identificando un dio, una fede religiosa o una spiritualità. Anch’io seppur ateo, agnostico ho un rapporto di curiosità esplorativa molto forte con quello di cui non riesco a darmi una spiegazione logica. Di San Gennaro mi incuriosiva il rapporto con Napoli, con il fatto che lui ripeta il miracolo tre volte l’anno. Il miracolo si dice «esplosivo» perché è un avvenimento, succede una volta nell’arco della storia, invece San Gennaro il sangue te lo scioglie tre volte e se addirittura interpellato, può tornare ad essere presente. Per cui mi è sembrato uno dei punti più possibili di avvicinamento nella ricerca quotidiana a quanto dicevo prima: il rapporto con qualcosa che va oltre ciò che riusciamo a maneggiare effettivamente.

In «L’atomizzazione» protagonista è la generazione nata in un mondo analogico e che si è trovata catapultata in un universo digitale, accusato di renderci tutti troppo solitari e apatici. Certo è che in questi mesi è stato fondamentale per mantenere un minimo di socialità

Nel brano parlo ovviamente della mia generazione che ha fatto in tempo per vivere entrambe le esperienze. Io non ho mai avuto uno sguardo del tutto critico nei confronti del digitale, penso che sia stata una nostra colpa perché abbiamo vissuto il passaggio in maniera totalmente passiva. In questo mondo c’è molto valore, anche se come in tutte le cose ci sono delle derive: i social spesso distorcono la realtà . Ma è evidente che il digitale ci ha tenuto in vita. Immagini la quarantena con il duplex?