Un residuo – Residue come il titolo del film d’esordio di Merawi Gerima presentato in concorso alle Giornate degli Autori appena concluse – è il simbolo dell’arroganza bianca nel quartiere di Washington Dc dove è ambientata la storia: i bisogni di un cane nel giardino della madre del protagonista, Jay, che la proprietaria dell’animale non si cura di pulire. Ma residuale è la stessa presenza nera nel luogo che sta venendo rapidamente sottratto alla comunità che lo ha sempre abitato: la gentrificazione si accompagna e sovrappone alla cancellazione della storia del quartiere, dei suoi abitanti, a una vera e propria sostituzione razziale.

Jay è un filmmaker appena tornato a Washington da Los Angeles, dove ha fatto la scuola di cinema, e vuole girare un film sul quartiere dove è cresciuto, sul suo passato «in via d’estinzione»: in lui si rispecchia lo stesso regista – «All’inizio ho cercato di nascondere il fatto che si trattava di una storia autobiografica, ma non è stato possibile: quando abbiamo iniziato a girare nel mio quartiere, con i vicini e gli amici con cui sono cresciuto, mi sono detto che non c’era motivo di nasconderlo» – e la sua storia, inclusa la ricerca di Demetrius, miglior amico d’infanzia di Jay di cui si sono perse le tracce. Gerima, figlio del filmmaker etiope Haile Gerima, racchiude nelle immagini del suo film presente e passato, la memoria e il cambiamento – sotto forma dei costanti lavori di demolizione e costruzione che entrano violentemente nelle immagini e nel sonoro – la traccia visibile dell’oppressione razziale. Finché il protagonista non sopporta più ciò che accade intorno a lui e, quando due amici bianchi attraversano la strada intimoriti per non passargli vicino, non contiene più la sua rabbia: «È un’esperienza universale per i neri, in qualunque paese al mondo. Spesso quando ti succede in prima persona provi il desiderio di dimostrare a chi ha cambiato strada che ’aveva ragione’».

Come è nato il progetto?
Ho cominciato a scrivere Residue nel 2017: ero stato lontano da Washington per un anno e i cambiamenti che ho trovato al mio ritorno erano tanti, troppi. Così mi sono messo a scrivere una sceneggiatura «arrabbiata», vendicativa, ma in definitiva banale. Il film è decollato quando a questa storia se ne è mischiata un’altra a cui pensavo da tempo: quella di un ragazzo in cerca del suo amico d’infanzia.

In «Residue» risuona anche l’attualità: questo tipo di gentrificazione è brutale quanto la violenza della polizia.
La violenza della polizia, la gentrificazione, sono tutti processi complementari. Se si guarda solo il video di George Floyd che viene ucciso da un agente ci si perde il contesto. Ma io per esempio vedo anche il modo in cui nella mia città la polizia viene usata come un’«impresa di pulizie»: rimuovono i cittadini neri per preparare lo spazio urbano all’arrivo della nuova popolazione bianca. L’omicidio di George Floyd o di qualunque altra vittima della polizia è parte di questo processo di dislocazione dei neri, del loro sfruttamento. Non è niente di nuovo: si tratta delle manifestazioni di centinaia di anni di storia statunitense, è la nuova vetta raggiunta da questo processo. Ma è tutto connesso, per questo nel film non usiamo mai la parola gentrificazione: per quanto mi riguarda è sempre presente, sempre lì, tanto quanto lo è la brutalità della polizia, il razzismo e tutte queste forze di cui i neri non fanno esperienza in modo isolato ma insieme, come una massa compatta di oppressione. Darle un nome semplificherebbe troppo le cose. Nel film i bianchi vengono tenuti ai bordi dell’inquadratura, ma sono parte di questa sensazione complessiva, insieme al suono delle sirene e dei lavori costanti. Nel finale quasi «si impossessano» dell’inquadratura: quella sequenza, in cui una coppia sorseggia del vino su una terrazza mentre Jay scappa dalla polizia, era importante per raccontare con un’immagine come le persone bianche vivano nelle stesse città, ma esistano in un mondo diverso rispetto ai neri – le tragedie che li colpiscono per loro non hanno conseguenze.

Il sonoro ha un ruolo fondamentale nel raccontare il cambiamento della città.
Ovunque puntassimo la macchina da presa c’era qualcosa che stava accadendo sullo sfondo, dei lavori in corso. Ho scritto il film mentre stavo a Los Angeles, pensando ai posti che ricordavo, molti dei quali pensavo fossero ancora lì – ma quando siamo andati a girare erano scomparsi. Di questi tempi a Washington non si può sfuggire al rumore: elicotteri, sirene della polizia, costruzioni in corso – è la realtà quotidiana. Con le nostre scarse risorse questo rumore costante era incontrollabile, così il lavoro di demolizione e costruzione è entrato a far parte del tappeto sonoro del film, che ha cominciato a prendere vita quando lo abbiamo accettato. In una sequenza Jay litiga con la sua ragazza e c’è un rumore tale che non si riesce a sentire quello che si dicono. Questo fa emergere ancor più la frustrazione di Jay, la sua impotenza rispetto a quanto sta accadendo.

Perché ha scelto di non rivelare ciò che accade a Demetrius?
Perché non ha importanza: Demetrius come Jay e tutti i loro amici è una vittima di questo sistema – è questo il punto. Ma anche perché è quello che è accaduto a me: non ho mai saputo cosa fosse successo al mio amico. Il personaggio di Delante invece, e la sua rabbia verso Jay, raccoglie in sé le mie paure di non essere accettato al mio ritorno e l’identità di una persona che vorrei esistesse nel mio quartiere e in altre comunità nere in America: abbastanza «accorta» da fare un passo indietro e dire che non si fida di chi ha di fronte, mettendo in discussione le sue intenzioni. Ogni filmmaker dovrebbe essere messo in discussione quando arriva nel posto che vuole raccontare: il dolore dei neri è ovunque, è semplice da trovare e sfruttare, da filmare e poi vendere a qualcuno. Tutti quelli con cui ho frequentato la scuola di cinema erano pronti ad approfittarsene.

Da tempo è in corso un dibattito sull’inclusione, la rappresentazione delle «minoranze» nel mondo del cinema. C’è stato un cambiamento in positivo per i filmmaker neri negli Stati Uniti?
È un dibattito spesso imbarazzante e incredibilmente fastidioso. Credo che la parola «representation» non significhi assolutamente nulla se non corrisponde a una parificazione economica degli artisti neri, affinché possano prendere parte attiva a questa rappresentazione. Il fatto che vengono realizzati più film neri non condona il danno fatto in precedenza. Mio padre ad esempio continua a fare film, e lo fa senza risorse, senza fondi. Da 25 anni sta lavorando a un progetto sulla seconda invasione italiana dell’Etiopia (seguito di Adwa, del 1999 ndr), in cui racconta la storia del popolo etiope attraverso le immagini girate dalle persone venute a massacrarlo: gli italiani avevano la macchina propagandistica più evoluta al mondo e i materiali sono tantissimi. Ma per mio padre ottenerli è una battaglia costante, un’impresa difficilissima a causa delle condizioni in cui lavora un filmmaker nero rispetto a uno bianco, per il quale è tutto più semplice. La gente può convincersi che i tempi stiano cambiando perché c’è qualche regista nero in circolazione, ma in fondo le condizioni sono sempre le stesse: pochissimi registi neri hanno le risorse per poter fare il film che vogliono senza condizioni. Tutta la discussione sulla «representation» è sbilanciata e miope.