Il commiato. La vicinanza, toccare il corpo, la carezza, il distacco, la vita che continua. La platea muta che nel silenzio condivide. Lo sguardo alterna l’affondo in ciò che vede all’abbassare gli occhi, nel solo ascolto della musica. Il sorriso, le ultime risate, il bagnarsi le labbra, gli occhi aperti, il sonno, il viaggio, la fine, le lacrime. Il volto trasformato dal non essere più. Le nostre morti diverse, unite da un sentire collettivo.

Potremmo iniziare in tanti modi a scrivere di Requiem pour L. di Fabrizio Cassol e Alain Platel, trasformazione incandescente del Requiem di Mozart, spettacolo sulla morte e sulla vita, in prima nazionale sabato scorso al Teatro Ariosto per il festival Aperto di Reggio Emilia e di ritorno in Italia il 30 novembre e l’1 dicembre alle Fonderie Limone di Moncalieri per Torinodanza, eppure a distanza di una settimana dalla visione, siamo di nuovo investiti da un fiume di immagini, di suoni, di musica, di movimento che non lascia scampo: un inarrestabile intreccio sentimentale (sì, dobbiamo avere il coraggio di dirlo), privo di sdolcinature, tra l’umanità in scena e le personali storie di noi tutti, singoli spettatori.

Quattordici tra musicisti e cantanti di diverse nazionalità che rendono vitale con il loro movimento (c’è a tratti più danza qui che in tanti lavori che la sbandierano come essenziale), le voci singole, la chitarra, il basso elettrico, la fisarmonica, le percussioni, l’eufonio, il likembe, una scena riempita di lapidi grigie, sorella del Monumento all’Olocausto di Berlino.

Fabrizio Cassol firma la musica, Alain Platel la regia: insieme ci hanno già raccontato tanto sull’uomo, con titoli come VSPRS, pitié, Coup Fatal. Qui sono andati ancora più diretti. Cassol ha riscritto il Requiem mozartiano attraverso la mistura con un universo musicale che intreccia l’Occidente e l’Africa a tradizioni pigmee, indiane, maliane. Una partitura che al latino mischia testi in lingala, swahili, kilari, voci liriche e non, strumenti e parole che diventano tutt’uno con il corpo, un meticciato universale che è quello di cui ci parla Platel da sempre.

E poi c’è quel pour L. Un filmato in bianco e nero, proiettato sullo sfondo. Una donna sta morendo, sono le ultime ore della sua vita. Non è un trucco teatrale. Nell’interrogarsi sulla morte, tema che tante volte ha attraversato il suo lavoro, Platel è arrivato al punto ultimo. L’ha messa in scena. Lucie sapeva di morire, ha dato a Alain la possibilità di quella ripresa. Coraggio reciproco. Affondo nella realtà. Non c’è mai un secondo di voyerismo, ci sembra quasi ovvio dirlo per Platel, di cui si conosce il pudore e l’attenzione ai rapporti con le persone fin da quando ero un ortopedagogista, ma è qualcosa da ribadire a voce alta. Il filmato accompagna da cima a fondo lo spettacolo. La musica, i cantanti, i movimenti sulla scena, il dolore di chi resta, il mistero di chi se ne va. Possiamo davvero accompagnare chi muore? Si alternano le sensazioni, le questioni, le domande senza risposta. La fisarmonica è come il respiro. Le percussioni sono il passaggio nella fine. I tempi con cui Platel firma la regia ci portano dentro la musica e dentro il filmato, dentro quel momento tragico in cui vediamo andarsene chi amiamo. A chiunque sia successo è un riconoscimento condiviso.

Possiamo darci consolazione? Ecco quel controluce con tutti fermi, prima che parta il Lacrimosa, con quella carezza sul volto appoggiato al cuscino. Ecco quel battersi il petto dei musicisti, che ci sembra riportarci all’insopportabilità dell’attesa, alla visione dell’irreparabile. I fazzoletti scossi come un addio mentre si canta, il saluto negli occhi della donna, portare a un tratto gli strumenti come armi, come se si diventasse soldati contro il dolore. Suonare sdraiati sulle lapidi, in piedi, correndo, danzando. Non si esce indenni dal Requiem pour L., ripercorriamo i commiati che siamo riusciti a dare e quelli troppo veloci che ci hanno svuotato. Eppure a sorpresa, come accade nello spettacolo, la vita va avanti. «Dopo aver combattuto tante battaglie, me ne vado. Tutto è compiuto. Abbracciate pienamente la vita». (da un testo dello spettacolo per il Dies irae primum). Una carezza che ci avvicina ai nostri morti, al di là di qualsiasi credo.