La scelta più comune è quella della libreria – a cavallo tra il professionale e il comfort di una casa «intelligente», l’ineccepibilità dell’istruzione, condita però dall’esibizionismo che – tra una costa e l’altra dei volumi – ti permette di rivelare qualcosa in più di te (il peggio è chi include i propri libri nel campo -in copie multiple!). Ma alcuni (come per esempio l’ex consigliera di Obama, Valerie Jarrett) optano invece per la cucina – forse proprio per non rivelare nulla e tenersi sull’asettico, magari aggiungendo il tocco verde di una pianta vicino al frullatore; o forse perché un involucro tutto bianco tende ad essere più caritatevole sui segni del volto se non hai professionisti a curare il trucco e le luci ma devi fare tutto da te, immaginando anche come rispondere all’effetto «live» di un tramonto o di un temporale improvviso. C’è poi chi raffinatamente opta per uno sfondo completamente neutro animato però da angoli creati dai muri o delle scale di casa (come il curatissimo q&a a più voci che ha seguito la proiezione del film di Sofia Coppola, On the Rocks, al New York Film Festival). Squarci visivi e sonori di bambini, animali domestici, cellulari importuni e piccoli disguidi tecnici sono accettati come parte integrante del formato – a meno che non si tratti di una situazione estrema come quella in cui è incappato l’ex corrispondente legale del «New Yorker» Jeffrey Toobin, sorpreso a masturbarsi durante uno Zoom di lavoro perché aveva sbagliato a bloccare le telecamera del computer (la malfunction gli è costata il posto presso il settimanale, il contratto per un nuovo libro e varie consulenze).

MA TRA TUTTE questa varianti della Zoom experience, attraverso cui da ormai quasi un anno ci vengono somministrati giornalisti, opinionisti, personaggi politici, star di cinema e tv e celebrities varie, la condizione a cui non si sfugge è l’effetto scatola di quel primo piano. Un effetto che, nonostante tutti gli attrezzi di scena con cui uno può cercare di «scaldare» l’ambiente che lo circonda è inevitabilmente un effetto di solitudine. Anche, se non addirittura di più, quando sullo schermo si apre una sovrabbondanza di finestrelle. Non importa quanti siamo – o se il coro e l’orchestra funzionano in sync perfetto anche da «remote», senza condividere uno stesso spazio – l’immagine è un’immagine di alienazione.

Rispetto alla Hollywood magnifica, rarefatta e distante raffigurata in Mank -un pianeta sospeso come Xanadu, protetto dai cancelli degli studios e di San Simeon, e dalla corazza antiproiettile del glamour, siamo arrivati – grazie all’esplosione della cultura tabloid e ai social- a una versione piuttosto usa e getta (anzi, usa, getta e cancella) delle star – che si parli di sport, arte, giornalismo o politica…- la pandemia sembrerebbe aver offerto la premessa per un livello ulteriore di intimità – intrinseco all’ingresso in casa (per quanto filtrato dal set design, «casalingo») e l’eliminazione parziale dell’intralcio anche fisico costituito dall’abituale squadra di uffici stampa e assistenti personali. In realtà, l’esperienza risultante, lungi dall’essere più intima, moltiplica la distanza – a partire da quella radicale tra chi, nella pandemia, può permettersi di operare quasi esclusivamente «da casa», e chi invece è costretto a uscire nel mondo e mischiarsi ad altri -il che fa di Los Angeles (tra le contee più massacrate dal Covid degli States, ma anche una di quelle che include codici postali multimiliardari) un paradosso particolarmente emblematico e crudele.
Ridotte nello spazio angusto della promozione via Zoom (come i film – belli e brutti, grossi e piccoli – sono mortificati nello spazio angusto del consumo in casa, non scelto ma forzato) le star sono non solo meno affascinanti ma anche meno interessanti. Intanto il contesto in cui chi fa la domanda e chi risponde non sono nello stesso luogo e nella stessa inquadratura vira qualsiasi intervista verso il monologo; e poi «da casa», dove non devi nemmeno mediare con un’infrastruttura formale, probabilmente è più facile risultare «pigri», «viziati».

UN BUON ESEMPIO della caduta di tono è una conversazione tra Cate Blanchett e George Clooney offerta recentemente in promozione per Midnight Sky. Due attori/autori noti per impegno ed eloquenza, Blanchett (nel ruolo dell’intervistatore) e Clooney hanno dedicato i primi 5 minuti a parlare della barba di lui nel film – un livello di scambio che, in una normale situazione di conferenza stampa, difficilmente avrebbero perdonato a un povero giornalista. Il fatto è che, più ci si addentra nella dimensione casual, privata dal semplice correttivo dello spazio comune del lavoro – un set, uno studio o un’inquadratura – più l’élite risulta… elitaria. Perché il brand da solitudine digitalmente coadiuvata specifico di questa pandemia non favorisce il rapporto personale con l’immaginario e la fantasia. Lo uccide.