«Con il processo Mafia Capitale, Roma si gioca la reputazione». Non solo la sua, ma quella «della quarta potenza economica europea», scriveva ieri il quotidiano francese Le Monde. È fin troppo chiaro agli occhi del mondo che dentro l’aula bunker del carcere di Rebibbia non saranno solo giudicati i 46 imputati, accusati di far parte del “mondo di mezzo”, ma andrà in scena sotto potenti riflettori mediatici la capacità stessa dell’Italia di «restaurare l’immagine disastrata di Roma», in un dibattimento pubblico che farà da sfondo a tutta la stagione commissariale, al Giubileo francescano e soprattutto alla campagna elettorale per le prossime amministrative.

Dietro questo processo, secondo il corrispondente del quotidiano parigino, Philippe Ridet, c’è anche la sfida di restituire «fierezza» ai cittadini romani che oggi «si strozzano di rabbia» nel vedere promossa Milano, «la città rivale», «al rango di modello civico per il successo di Expo 2015, dopo essere stata il simbolo della corruzione venti anni fa».

In realtà, le sfide sono tante, almeno quanti sono i soggetti che vorrebbero sfruttare l’occasione per trasformare ciascuno nel proprio evento simbolico il «processetto dopato da una campagna mediatica» (come lo ha bollato l’avvocato difensore dell’imputato numero uno, l’ex Nar Massimo Carminati), o se si preferisce, «il grande show» (per usare la definizione, ispirata da tutt’altro intento, del neo segretario dei Radicali italiani, Riccardo Magi).

Perfino l’imputato numero due, Salvatore Buzzi, ras delle cooperative rosse, trova talmente utile quella grande selva di riflettori puntati sull’aula giudiziaria che ha deciso di argomentare la sua linea difensiva/offensiva direttamente in tv, scrivendo dal carcere dove è recluso una lettera al conduttore del talk show di La7, Piazzapulita.

Beppe Grillo, per esempio, ovviamente non si lascia sfuggire l’occasione per contrapporre il suo movimento a quelle forze politiche che oggi lavorano per il Partito della Nazione e che «hanno iniziato a governare insieme nel 2011 con Monti e continuano a farlo con i residuati di Ncd e il taxi di Verdini». Nella Capitale, Pd e Forza Italia, «governano insieme da anni come dimostra Mafia Capitale. La sola novità alle elezioni per Roma – aggiunge il leader a 5 stelle – sarebbe di trovarli tutti insieme in lista. Un atto di trasparenza nei confronti degli elettori, quelli onesti e quelli mafiosi».

Con queste argomentazioni, il M5S finisce nell’interminabile elenco di coloro che ieri hanno chiesto ai giudici di costituirsi parte civile: dal Governo nazionale alla Regione Lazio, da Roma Capitale al Pd romano, dal radicale Riccardo Magi che per primo denunciò lo scandalo dei “campi nomadi” e per questo ebbe «un danno alla mia attività di consigliere» all’ Ama Spa, dalla Lega Coop, Codacons e altre organizzazioni civiche a numerose associazioni antimafia, fino a un rifugiato politico pachistano di 23 anni, tre profughi del Darfur e 37 cittadini rom residenti nel campo di Castel romano, che era uno dei grandi business della cupola romana di Carminati e Buzzi.

Sono 150 circa i soggetti che chiedono di essere riconosciuti vittime di quelle associazioni mafiose (o organizzazioni criminali, a seconda se verrà validata o meno la tesi accusatoria del procuratore Pignatone) cresciute negli antri bui ma molto puzzolenti delle corruttele amministrative e degli intrallazzi politici.

Ma anche il Nazareno “surfa” sul processo per rimanere a galla nelle acque nere in cui sprofonda la politica partitocratica: secondo quanto riportato ieri da Repubblica, il governo si sarebbe costituito parte civile «ma con un singolare distinguo: solo nei confronti degli imputati di associazione mafiosa. Il che escluderà tutti gli ex consiglieri e gli assessori capitolini del Pd e comunque tutti i politici sin qui coinvolti, escluso il Pdl Luca Gramazio accusato, appunto, di mafia».

La giustizia farà il suo corso ma intanto l’inchiesta ha già chiarito che, come ha ricordato la deputata di Sel Celeste Costantino, nessuno può restare a guardare delegando solo a magistrati e commissari l’onere di contrastare la cultura mafiosa e del malaffare: «C’è una responsabilità che attraversa ogni livello istituzionale».