Le celebrazioni del 71esimo Republic Day indiano hanno mostrato con chiarezza lampante la profonda frattura che ormai da mesi divide il governo indiano guidato dal primo ministro Narendra Modi e milioni di persone scese in piazza nelle ultime settimane per protestare contro le politiche discriminatorie e settarie dell’esecutivo.

MODI HA SEGUITO lo snodarsi della tradizionale parata militare lungo l’imponente viale Rajpath a New Delhi al fianco del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, ospite d’onore invitato dal primo ministro in persona lo scorso anno. Scelta fortemente criticata dagli ambienti progressisti indiani e da gran parte della stampa internazionale ma che, finalmente, sbatte in faccia all’opinione pubblica internazionale la vera natura del secondo mandato modiano, all’insegna dell’intolleranza e in linea con le politiche repressive incarnate dal nuovo amico brasiliano di Modi.

UN BEL SALTO, se si considera che il primo Republic Day dell’era Modi – 2015 – l’ospite d’onore fu Obama. Così il ricordo del 26 gennaio 1950, giorno in cui la costruzione della Repubblica indiana indipendente si compie con l’entrata in vigore di una Costituzione pluralista e laica, quest’anno è stato celebrato da due tra i leader più controversi del panorama internazionale, noti per l’aperta ostilità verso minoranze etniche e religiose, verso la libertà di stampa e di espressione e verso opposizioni sia politiche, sia di piazza. Una realtà fattuale che, come solito, stride con l’autoracconto che il primo ministro indiano insiste nel propinare agli organi di stampa nazionali.

Domenica scorsa, nella puntata di gennaio di Mann Ki Batt – monologo in onda ogni mese su All India Radio – Modi è riuscito a magnificare i risultati ottenuti nella «lotta pacifica» all’indipendentismo del Nordest indiano, appellandosi agli ascoltatori per sforzarsi a risolvere i dissidi «onestamente e pacificamente, attraverso il dialogo». Nessun accenno alla repressione violenta che le forze di polizia e l’esercito, in particolare negli stati governati dal Bharatiya Janata Party (Bjp) di Modi, negli ultimi sei mesi hanno messo in campo indiscriminatamente dal Kashmir all’Assam, passando per gli atenei universitari di tutto il subcontinente in mobilitazione contro la legge di cittadinanza che discrimina la comunità musulmana, varata dalla maggioranza di governo a fine 2019.

DA UN LATO, dicevamo, i leader autoritari e l’esercito in sfilata, tra missili e reparti speciali tirati a lucido per l’occasione; dall’altra, le celebrazioni di Shaheen Bagh, luogo simbolo dell’opposizione dal basso all’esecutivo ultrainduista. Shaheen Bagh è un grande spiazzo situato agli estremi della zona musulmana di Delhi Sud. A poche centinaia di metri dal campus della Jamia Millia Islamia University, dove la polizia della capitale lo scorso 15 dicembre ha sfondato i cancelli caricando centinaia di studenti che stavano protestando pacificamente.

DA 45 GIORNI, Shaheen Bagh è occupata giorno e notte da migliaia di manifestanti, in larga maggioranza donne, che animano un movimento di protesta apolitico, dal basso, a trazione musulmana ma assolutamente inclusivo. Organizzate con coperte e tendoni e sostenute da migliaia di manifestanti solidali provenienti da ogni comunità religiosa ed etnica della capitale, le «donne di Shaheen Bagh» chiedono al governo o di ritirare la legge di cittadinanza (Caa) discriminatoria e rinunciare all’introduzione del «registro nazionale dei cittadini» – misura che, in coppia al Caa, andrebbe a discriminare cittadini indiani di fede musulmana – o di poter parlare direttamente con Amit Shah, ministro degli interni indiano e «longa manus» dell’estremismo hindu. Fino a quando almeno una delle due condizioni non sarà soddisfatta, le donne da Shaheen Bagh non se ne andranno.

Allo scoccare della mezzanotte di domenica, le donne di Shaheen Bagh hanno recitato insieme, a centinaia, il preambolo della Costituzione indiana. Poche frasi che esprimono i princìpi di laicità, eguaglianza, fratellanza, libertà e giustizia che hanno ispirato i padri costituenti indiani e che, secondo gli oppositori del governo, sono minacciati dall’ascesa della destra ultrainduista.

Nella mattinata, con migliaia di persone che raggiungevano lo spiazzo, tre manifestanti tra le più anziane a Shaheen Bagh – ottuagenarie – assieme a Radhika – madre dello studente dalit Rohit Vemula morto suicida nel 2016 e simbolo della discriminazione castale in India – hanno issato il tricolore al centro dell’accampamento. Circondate, a perdita d’occhio, dagli applausi di migliaia e migliaia di sostenitori. Mai come in questo inizio di 2020, la frattura che divide l’India di Modi da quella rappresentata a Shaheen Bagh appare insanabile, preannunciando uno scontro dall’esito politico incerto.