Le «piccole intese» a maggioranza variabile con le quali Matteo Renzi intende affrontare l’arduo percorso di un governo di legislatura fino al 2018 saranno costrette a trovare una «quadra» per trovare anche una sola idea per contrastare la disoccupazione giunta al 12,7% (quella giovanile è al 41,7%) destinata ad aumentare nel 2014. Il primo fronte è quello del Pd. La sinistra interna, al netto di Civati, ha presentato ieri un documento critico della «linea mercantilista nell’eurozona» e chiede di contrattare con l’Europa una deviazione temporanea del deficit strutturale dello 0,5% del Pil per tre anni. Un’impresa disperata, allo stato, visto che l’Ecofin e la Commissione Ue sono state chiare: l’Italia, già in predicato di superare il tetto fatale del 3% nel 2014, e a rischio di procedura d’infrazione, non può permetterselo.

Ieri la Corte dei Conti ha disegnato un altro scenario da incubo: il «credit crunch» continuerà nel 2014, le banche non presteranno denaro a famiglie e imprese. La domanda interna, come i consumi, non ripartiranno. Secondo la magistratura contabile ci sarà un buco nel gettito di 13,7 miliardi di euro tra il 2017 e il 2020. Il prossimo governo dovrà realizzare dunque manovre lacrime e sangue già dalla prossima legge di stabilità? Ci si è messo poi quell’uccello del malaugurio del centro studi di Confindustria: il debolissimo rialzo del Pil dello 0,1% nell’ultimo trimestre 2013 (con una perdita annuale dell’1,9%) è inferiore alle attese.

A fine anno la «crescita» potrebbe essere inferiore al dato da prefisso telefonico indicato anche dal Fondo Monetario Internazionale: +0,6%, mentre la disoccupazione aumenterà. Nell’ultimo trimestre dell’anno scorso sono stati persi altri 67 mila posti di lavoro. Questo il quadro di un’economia in recessione, sull’orlo della deflazione. Stando all’agenda dettata da Renzi, il governo inizierà ad affrontare il problema da marzo. Sul lavoro sono in ballo la sua proposta, poco meno di una bozza, quella di Maurizio Sacconi (Nuovo Centro destra) e quella di Pietro Ichino (Scelta Civica). Le ricette sono diverse e accomunate da un liberismo di fondo: meno garanzie in entrata, attraverso lo scambio tra un contratto a tutele crescenti per tre anni in cambio la sterilizzazione dell’articolo 18.

Lì dove non vige l’articolo 18, Renzi potrà accordarsi con gli alfaniani su un’ulteriore deregolamentazione del contratto a termine, estendendo la cosiddetta «acausalità» fino a 36 mesi. Questo significa che i «giovani» fino ai 29 anni, ma anche fino ai 35, potranno essere licenziati in cambio di un rimborso e, si dice, di un sussidio universale di due anni.

Con l’estensione, illegale rispetto alle norme europee, dell’«acausalità» dei contratti, le imprese useranno i contratti a termine (cioè i «mini-jobs» all’italiana) per tutte le assunzioni. Renzi ha anche il problema di accordarsi con Sacconi, portatore di istanze ultra-liberiste, e dovrà provare a moderarle.

Con il «salario minimo orario», ad esempio. Passi la suggestione di Obama, che l’ha aumentato da poco, ma questa misura non esiste in Italia e ha sempre incontrato l’ostilità dei sindacati per i quali essa vale nella contrattazione decentrata. Ovviamente non si parla di «reddito minimo», né di riforma della gestione separata dell’Inps che vessa gli autonomi e freelance. Sembra invece certa la riduzione del numero dei contratti precari, oggi 46, verso la prevalenza dell’apprendistato. Si prevede la riforma dei centri dell’impiego in un’agenzia unica. Su molti di questi punti esiste un sostanziale accordo con la minoranza interna al Pd che propone, tra l’altro, uno «Statuto del lavoro autonomo» e il rilancio delle politiche industriali. La riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro è legata alla spending review da 32 miliardi dell’ex Fmi Carlo Cottarelli. Un’altra incognita all’orizzonte.