Se il presidente della Toscana Rossi, uno dei politici all’apparenza più sensibili alle necessità dei suoi amministrati, volesse concedere un po’ di soddisfazione a chi avesse in uggia il sapore retorico e ridondante del teatro, per fare un esempio, di Gabriele Lavia (che invece è culmine artistico e registico della ricca Fondazione del teatro nazionale toscano), dovrebbe coltivare ed espandere su scala almeno regionale una esperienza come quella della Tovaglia a quadri. Una iniziativa che da vent’anni, sommessamente e discretamente, ma con tutta la forza birbona dello spiritaccio toscano, si materializza ogni anno, d’agosto, sul Poggiolino delle mura antiche di Anghiari, affacciata sulla Valtiberina, tra lo stupore ammirato dei turisti stranieri e dei pellegrini pierfrancescani, anche se racconta ansie e problemi del presente, che neanche quello stesso spiritaccio riesce a esorcizzare.

Protagonisti ogni anno del nuovo spettacolo sono infatti un gruppo di abitanti della città della battaglia leonardesca, ormai attori provetti, e cantanti struggenti, e quando serve anche danzatori. Ma senza alcun intento puramente filodrammatico , quanto interessati a ricordare, ripercorrere e raccontare esperienze e stati d’animo e dubbi. Quei fatti, quei personaggi sono stati per vent’anni i riferimenti sicuri di una narrazione collettiva, che aveva anche il vantaggio, rispetto al pubblico, di avvenire tra le portate di una buona cena della tradizione toscana.

Ma quest’anno qualcosa sembra cambiare sopra la Tovaglia a quadri. Resta la cena, sempre soddisfacente, ma cambia la narrazione, o almeno i suoi tempi e i suoi fondamenti. Non c’è più il fatto curioso, o il personaggio, o la beffa, da cui far dipanare la drammaturgia. Lo si potrebbe intuire fin dal titolo, fulminante come sempre, ma rivolto a qualcosa che nella sua assolutezza coinvolge davvero tutti: Disajob.

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Il nesso tra il malessere che affligge la società, e il lavoro, e la sua mancanza, e anche le sue forzate trasformazioni, è qualcosa che riguarda e coinvolge tutti, certo non solo ad Anghiari o nella Valtiberina. Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini, autori e inventori della manifestazione, dopo il successo universalmente conquistato lungo gli anni, hanno evidentemente deciso di allargare il respiro della loro «creatura», e la loro scrittura si è sviluppata proprio a partire dalla quotidianità banalissima del «male»: i discorsi che si sentono in giro, e che gradualmente si insinuano in ognuno di noi, che può ritrovarsi così, quasi suo malgrado, in maggioranze non più silenziose, anzi rumorosamente reazionarie o razziste. I luoghi comuni della propaganda omologata si espandono ormai in un vuoto pneumatico di indifferenza o di superficialità, o di reazioni immature se non infantili.

Il primo personaggio a comparire sulla scena di Disajob è uno spazzacamino, chiamato a indagare sull’onda anomala proveniente da tubature intasate in tutto il paese. Qualcosa non funziona, ed è facile gioco del pregiudizio attribuirne le cause all’invasione straniera incontrollata, all’organizzazione vetusta e quindi sbagliata della società, o semplicemente agli altri (vicini o dirimpettai) che non condividano lo stesso conformismo. Speculare al rapido diffondersi del pregiudizio, è l’illusione del cambiamento radicale, di andarsene in un altro mondo totalmente diverso, nella fattispecie l’Australia. E nelle parole dell’imbonitore che con facili slogan promette miracoli, è facile riconoscere le frasi fatte e le verità spicciole del toscanissimo nostro presidente del consiglio, per altro mai nominato. Senza forzature né travisamenti, gli slogan renziani e le sue affermazioni apodittiche e semplicione divengono immediato materiale drammaturgico di grande intensità. Perché si coniugano con difficoltà reali, illusioni facili, promesse strampalate e vero disagio profondo di una collettività senza più centro né sicurezze.

Le mille vicende dei personaggi (dai berci razzisti dalle finestre alla chiusura nell’egoismo dei propri ridotti guadagni, dal piacere inconfessabile della minievasione fiscale alla illusione di liberarsi migrando delle proprie insicurezze, di lavoro e affettive) si scontrano a un ritmo incalzante, che hanno dei momenti di tregua, e di riflessione, nelle bellissime canzoni che Mario Guiducci va a ripescare dentro e fuori delle tradizioni musicali locali. Diversi secoli di armonie (che l’ensemble rende in modo fantastico, spesso fino alla commozione) paiono qui utili a capire il presente più di tanti discorsi. Con una vetta, che forse avrebbe indispettito Caterina Bueno, chissà, rappresentata da una versione tradotta di Maremma amara, tramutata in una esterofila Bitter Maremma

Non c’è lieto fine stavolta al momento di sparecchiare la Tovaglia a quadri. Anche se si è riso, applaudito e capito tante cose, c’è un ribaltamento finale che dà da pensare. Il Toscana dream si rivela finto, si torna al solito tran tran, e perfino lo scontro razziale che tanto sembrava dirimente durante lo spettacolo, si rivela specchio illusorio di valori fasulli che la storia dovrebbe avere già spiegato. Anghiari può essere fiera di questa sua complessa produzione, ma forse, come si diceva all’inizio, un tale lavoro meriterebbe un respiro e un supporto più ampio. Lo spettacolo rispecchia cose e sentimenti di tutti, sarebbe giusto che un bacino di pubblico più ampio ne possa godere. E soffrire.