Il Recovery Plan italiano resta fermo al palo. Uno smacco per Giuseppe Conte che aveva impostato tutto il suo intervento in aula di oggi proprio sul Piano italiano, esaltandolo anche per dimostrare quanto secondario sia lo scontro sulla riforma del Mes. Lo farà lo stesso ma con la sua bozza congelata in attesa di sbloccare la situazione l’effetto sarà ben diverso. Anche perché in aula prenderà la parola anche Matteo Renzi e, salvo accordi in extremis, picchierà durissimo.

QUANTO LA SITUAZIONE fosse paralizzata, ieri, lo si è capito ancora prima che venisse rinviata a data destinarsi, forse stasera ma non è affatto detto, la riunione del consiglio dei ministri prevista per il pomeriggio. Ci aveva già pensato Matteo Renzi stesso: «Non daremo i pieni poteri a Conte. Votiamo contro. Se non ha un’altra maggioranza si fermi». Poi, ancora più secco: «Ci sarà crisi? Spero di no. Temo di sì». Riunire il consiglio dei ministri sarebbe stato come convocare l’ultima cena.

Nella notte, in un pre-consiglio che i capidelegazione di Pd e 5 Stelle, Dario Franceschini e Alfonso Bonafede, insistono nel definire «positivo», e figurarsi allora se fosse andato male, i tentativi di convincere i renziani erano andati a vuoto. Conte si era detto disposto a rivedere i poteri dei sei commissari, ipotizzando la possibilità di non permettere loro di sostituire anche formalmente i ministri ma lasciando agli esponenti del governo l’ultima parola e rivedendo la possibilità della task force di operare in deroga.

A Italia viva non è bastato, come non è bastata l’offerta di inserire anche la ministra Teresa Bellanova nella cabina di comando assoluta, insieme a Conte, Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli. Offerta respinta con sdegno. «Non interessa aggiungere un altro nome.

Il tema sono i sei commissari che si sostituiscono ai ministri. Conte non dice la verità, ma ne discuteremo quando si arriverà in parlamento», affermerà in serata Maria Elena Boschi. Anche la tesi per cui a insistere per una la cabina di regia formata da tecnici sarebbe stata l’Unione europea è stata smentita ieri direttamente da Bruxelles: «Non abbiamo dato nessuna indicazione all’Italia. La decisione spetta agli Stati».

L’OFFENSIVA DI RENZI ha nel mirino l’intero sistema di governo tramite task force caro a palazzo Chigi. Non solo la cabina di regia per il Recovery ma anche la Fondazione che dovrebbe gestire i servizi segreti e ieri anche il ministero della Giustizia Bonafede ha annunciato la sua brava task force da affiancare all’Anac. Sul testo del Piano, o meglio sulla ripartizione dei fondi perché altro al momento non c’è, i malumori del Pd sono anche più forti di quelli dei renziani.

In particolare per la decisione di indirizzare verso la Sanità solo nove miliardi, un fondo sconcertante dopo che il ministro Roberto Speranza aveva ipotizzato nei giorni scorsi tutt’altra cifra. La scelta, inoltre, pare fatta apposta per riaccendere le polemiche sul prestito Mes destinato alla Sanità.

Il sogno di Conte di inserire il suo modello di governance del Recovery italiano nella legge di bilancio era già svanito lunedì, affossato dal Pd quanto da Renzi. Ma anche procedere con un decreto con il voto contrario dei ministri renziani, dunque destinato a essere poi battuto in aula al momento della conversione, non pare una strada praticabile. Significherebbe nominare i commissari e avviare la struttura con il fortissimo rischio di dover poi smantellare tutto dopo il voto del parlamento.

Una mazzata finale, che renderebbe la crisi inevitabile. Dunque meglio congelare tutto, se per ore o giorni al momento non lo sa nessuno, cercando la mediazione con un Renzi che però non è affatto isolato e lo sa perfettamente. Il Pd ha posizioni molto simili non solo sul Recovery ma anche sulla necessità di modificare il passo e la struttura del governo e nei 5S c’è Vito Crimi che difende la «struttura efficiente e qualificata», cioè la governance di Conte ma nell’area più vicina a Luigi Di Maio si colgono umori diametralmente opposti.

LA REALTÀ È CHE neppure una questione di importanza eccezionale come la gestione italiana del Next Generation Eu è il vero cuore del problema. In ballo c’è il dna del governo e in particolare il modo di governare del premier, che il Pd e Di Maio sopportano ormai tanto poco quanto Renzi. Le elezioni anticipate non le vuole nessuno ma neppure un premier in guerra con la sua maggioranza ogni giorno rappresenta una via d’uscita accettabile.

A gennaio il bivio sarà tra una ricomposizione del governo, con Luigi Di Maio e il vicesegretario dem Andrea Orlando potenti vicepremier, o il cambio della guardia a palazzo Chigi. In quel caso solo un esponente del partito di maggioranza relativa, cioè del Movimento 5 Stelle, potrebbe succedere a Giuseppe Conte.