Per l’Al Pacino di palazzo Chigi è iniziato un mese lungo e pieno d’insidie. Non è cominciato sotto i migliori auspici. Quel messaggio d’addio del quasi ex presidente, così esplicito, aveva cercato di evitarlo in tutti i modi, convinto sin quasi all’ultimo di poter convincere Napolitano a rinviare di qualche settimana. Poca cosa sul calendario, non sulla scacchiera del gioco politico. Qui, infatti, i diversi fronti che vedono impegnato Matteo Renzi confluiranno a imbuto, rendendo tutto, e in particolare la scelta del nuovo capo dello Stato, ad alto rischio.

Il 7 gennaio, con la Befana ancora svolazzante, il Senato inizierà a discutere sul serio di legge elettorale, dopo la sguaiata farsa dell’incardinamento all’alba di fronte a un emiciclo deserto. Berlusconi ha confermato il suo pieno appoggio, e per palazzo Chigi il sollievo è forte. Restano però in campo un paio di particolari non secondari, intorno ai quali potrebbero coagularsi, oltre alle forze contrarie all’Italicum, anche le minoranze interne di Fi e del Pd. Il primo è la clausola di garanzia, che dovrebbe posticipare l’entrata in vigore della nuova legge. Renzi l’ha promessa, però vuole che sia l’ultima norma a essere approvata. I ribelli azzurri non si fidano, la reclamano in testa invece che in coda alla lista e minacciano in caso contrario la defezione.

Il secondo nodo riguarda i capilista bloccati, cioè nominati dall’alto. Se il testo non cambia, metà parlamento sarà scelto dalle segreterie e gli eletti con le preferenze si conteranno solo nel partito che si aggiudica il premio di maggioranza. Qui è la minoranza Pd che promette di non cedere, mentre la fronda azzurra è molto più tiepida. Se, in nome del calcolo politico, anche una parte di Fi chiedesse di alterare le proporzioni fra eletti con le preferenze e nominati il percorso della legge diventerebbe accidentato. In ogni caso, con la partita del Colle aperta, non sarà facile per Renzi portare a casa l’Italicum entro la fine del mese.

Il tavolo della riforma istituzionale, in discussione con tempi contingentati a Montecitorio, è meno insidioso, ma anche lì qualche sorpresa, soprattutto dal lato della tensione in aula con ricaduta immediata sull’immagine del governo, è più che possibile. Anche se, dati i rapporti di forza, non è facile che si ripeta a Montecitorio quel che si verificò l’estate scorsa a palazzo Madama, dove la legge fu sì approvata nei tempi fissati, ma a prezzo di una mazzata tale in termini d’immagine da autorizzare la formula «vittoria di Pirro».

La prova più difficile, quella del Colle, dovrebbe iniziare a fine mese. Napolitano si dimetterà il 14 o il 15 gennaio, alla fine del semestre di presidenza italiana Ue. Le votazioni inizieranno due settimane dopo. La coppia del Nazareno ha un colpo solo il canna: eleggere un candidato politico concordato dai due leader alla quarta votazione, la prima in cui sarà richiesta una maggioranza semplice e non dei due terzi. Se va a vuoto quel colpo, la faccenda si trasformerà in un torneo aperto a ogni esito. Nel quale giocheranno le loro carte anche poteri formalmente estranei alla vicenda: i vertici della Ue, che mirano a insediare al Quirinale un loro uomo, un presidente che sia anche e soprattutto «commissario», e la magistratura, tentata dal conquistare d’impeto l’ambita roccaforte, in nome della «lotta alla corruzione».

Sulla sfida potrebbero pesare, ancor più delle già citate scadenze parlamentari, alcuni appuntamenti extraparlamentari.

Secondo voci in circolazione da settimane nei palazzi della politica, la Ue potrebbe annunciare a metà gennaio l’intenzione di chiedere all’Italia, a marzo, di modificare la legge di bilancio. Per il governo sarebbe una mazzata clamorosa, che si rifletterebbe inevitabilmente anche sulla scelta del nuovo capo dello Stato. Il 25 gennaio, poi, si terranno le elezioni in Grecia. L’eventuale vittoria di Tsipras, anche senza chiamare in causa «contagi» economico-finanziari di sorta, avrebbe una ricaduta politica immediata sugli equilibri italiani, rinvigorendo più di mille cure ricostituenti l’attualmente esangue opposizione interna al Pd. Con tutto quel che ciò comporterebbe nei voti segreti per il Quirinale.

Alla fine del mese, infine, sarà già possibile indicare con ragionevole margine di sicurezza l’esito del jobs act. Gli imprenditori intenzionati ad assumere approfittando degli sgravi fiscali hanno infatti tutto l’interesse a procedere immediatamente, nelle prime settimane dell’anno. Se lo faranno, Renzi potrà cantare vittoria e affermare di aver ridato fiato alle assunzioni a tempo indeterminato, sia pure al prezzo di una falcidie dei diritti dei lavoratori. Se non lo faranno la credibilità del governo finirà in frammenti, e il voto sul nuovo presidente, se la partita sarà ancora aperta, diventerà una riffa.