«Questo è un partito, non un movimento anarchico», più che ruvido, al limite della brutalità, Matteo Renzi cancella così non solo il dissenso dei 14 senatori che vorrebbero «ricattare il Pd», ma anche tutte le critiche piovute sulla sua riforma del Senato. Di spiragli non ce ne sono. Il palco della prima assemblea nazionale del Pd è un plotone d’esecuzione: osanna e ringraziamenti per il vincitore, tali e tanti da far sospettare l’imminente nascita di un vero e proprio culto della personalità; anatemi per Mineo e i reprobi che vorrebbero bloccare il treno trionfale delle riforme.
Come sempre, il coro è persino più realista del re, e chi, come il capogruppo al Senato Zanda, ha da farsi perdonare antichi dissensi strilla più di tutti. Se Renzi nega il diritto al voto in dissenso in commissione, concede almeno quello di votare secondo convinzione in aula («Noi non cacciamo nessuno, ma se in commissione la maggioranza è di un solo voto chi non è d’accordo ci faccia il piacere di non mandarla sotto, poi va in aula e vota come vuole»). La massa degli interventi va meno per il sottile: benissimo parlare e discutere. Ma al momento del voto ci si adegua al volere della maggioranza. Altrimenti, accusa Zanda, il più rigido di tutti, si segue l’antica «tradizione di Ghino di Tacco» e si prepara scientemente la fossa al governo proprio come successe col secondo governo Prodi.
In realtà va giù durissimo anche il segretario, forte di una gaffe dello stesso Mineo, che in un’intervista gli aveva dato del «bambino autistico»: «Di me dite quello che volete, ma non accetto che si insultino tutti quelli che vivono l’esperienza dolorosa e bellissima di avere un figlio disabile». Mineo capisce in ritardo l’errore e si scusa, ma il danno è fatto. Anche senza lo svarione, comunque, l’esito sarebbe stato identico. All’enfant prodige che in pochi mesi ha portato un partito in ginocchio al quel 40,8% che campeggia dietro il palco accompagnato dallo slogan «adesso tocca a noi» non si può che obbedire, e con ostentato zelo.
La platea osannante sbanda una sola volta, quando sul palco sale Walter Tocci, uno dei senatori «autosospesi», quello che più di ogni altro conosce i toni con cui rivolgersi all’anima dell’antico Pci. «Caro Matteo, non era mai successo che un parlamentare venisse sostituito in questo modo, ma il tuo è stato un atto d’imperio inutile, una sberla alle mosche. Il voto di Chiti o di Mineo non è affatto determinate. La realtà è che le riforme sono impantanate e dunque bisogna modificare l’impianto e rivolgersi alle opposizioni. Occupati delle riforme, ma fallo da segretario del Pd non da capo del governo». L’assemblea applaude a scena aperta, quasi un’ovazione, ma è una nube passeggera. Subito dopo la raffica degli interventi che gareggiano a chi più si allinea riparte come se nulla fosse.
L’intervento di Tocci è il solo momento in cui il tema centrale delle riforme viene evocato con realismo. Nessuno, a partire da Renzi, sfiora infatti i veri nodi: l’accordo traballante con Berlusconi, le voci sempre più insistent[/ACM_2]i di uno sciagurato patto con la Lega, che consegnerebbe al governo i voti preziosi dei 14 senatori del Carroccio ma in cambio del mantenimento del disastroso Titolo V. Verrebbe così eliminato il Senato, che aldilà della forte presa sull’opinione pubblica è in realtà un ostacolo minore, e conservato quel «federalismo» che è all’origine della moltiplicazione della clientela, degli intoppi burocratici e della corruzione. Un affarone.
Il cingolato di Renzi non spiana solo il dissenso sulla riforma. Il segretario e premier non risparmia l’Anm («Vogliamo una giustizia che funzioni ma sia anche giusta. Siamo garantisti ma non indulgenti: se un sindaco patteggia, poi se ne va. E anzi, chi ha qualcosa da raccontare si affretti a salire le scale di un palazzo di giustizia. Però non si può dire che fissare un tetto di 240mila euro per gli stipendi significhi ledere l’indipendenza dei magistrati»), né il partito-Rai, che ha permesso a molti («anche giornalisti») una facile e immeritata carriera.
Ma con tutti gli applausi e i forzieri elettorali pieni, Renzi sa perfettamente di avere di fronte una strada tutt’altro che facile. Se lo ripete più volte non è per propaganda ma per cognizione di causa. Per affrontare la sfida ha bisogno che il partito ci sia tutto e lo segua senza retropensieri. Per questo, ieri, si è lanciato alla riconquista delle minoranze interne. E’ stato lui a decidere, nella notte, e a comunicare sbrigativamente via sms, che la presidenza vada al «giovane turco» Matteo Orfini e non a un bersaniano. E’ stato lui a bocciare l’ipotesi, ventilata da Cuperlo ma stroncata ancora prima di diventare una vera e propria candidatura, di affidare l’alto incarico a Zingaretti. I bersaniani mugugnano e Fassina dice chiaro e tondo che la scelta «non risponde a criteri super partes». Ma non è facile che rifiutino l’ingresso in segreteria quando il Magnifico, dopo aver nominato ieri vicesegretari i fedelissimi Guerini e Serracchiani, glielo proporrà, e non ci vorrà molto.
Ma il vero colpo da maestro, nella strategia tesa a recuperare la sinistra, è l’annuncio che d’ora in poi le Feste del partito torneranno a chiamarsi dell’Unità (quotidiano che, annuncia di sfuggita il segretario, si fonderà presto con Europa). Forse solo un segretario di provenienza non comunista poteva immaginare una mossa del genere, impensabile un anno fa, tanto azzardata quanto quasi certamente vincente.
Ma con l’assemblea di ieri la lunga fase post elettorale si è conclusa. Da domani, soprattutto sulle riforme, il segretario pigliatutto dovrà fare i conti con le difficoltà reali. Quelle enumerate dal molto applaudito e poco ascoltato Walter Tocci.