E pensare che il Pd era pure disposto a riprenderselo, il Renzi. Bastava che votasse il ddl Zan senza fare giochini con Salvini, che la smettesse per qualche mese di lanciare veleni sui dem e insulti a Conte, che dicesse sul reddito di cittadinanza quello che ha ammesso persino Berlusconi. Poca roba.

E invece lui ha fatto della Leopolda numero 11 l’arena del rancore, dei veleni e delle insinuazioni su Prodi e Bersani, delle insolenze su Letta, dell’odio spropositato verso un Conte che lui ha abbattuto e che, pur offeso, non gli ha mai riservato un simile trattamento. Avrebbe potuto fare un centrino con Calenda, alleato dei dem, la “quarta gamba” del campo progressista e riportare in Parlamento una decina dei suoi.

Niente da fare: ha tagliato tutti i ponti col centrosinistra, si spera definitivamente, vagheggiando un «centro riformista» per il quale ha solo riferimenti internazionali (Macron su tutti) ma pochissimi alleati in Italia. Il sindaco di centrodestra di Venezia Brugnaro, forse. Quello di Genova Marco Bucci (presente alla Leopolda), forse. Il presidente del Coni Malagò, chi lo sa? Mara Carfagna? E chi lo dice che lascerà Forza Italia con Brunetta e Gelmini? Improbabile.

In ogni caso (grazie anche alla legge elettorale semi-maggioritaria disegnata dal suo fedelissimo Ettore Rosato) l’obiettivo massimo è un “pattino Segni”, come quello che nel 94 sfidò con scarsi risultati le corazzate di Berlusconi e di Occhetto. Oppure, per stare sul recente, una cosa tipo la Scelta civica di Monti del 2013. Ma Monti era a palazzo Chigi, aveva un suo pubblico nazionale e (soprattutto) internazionale. E poi era Monti, e alla Leopolda di gente con quel curriculum non se n’è vista.

Senza dimenticare che col professore c’erano Montezemolo e Sant’Egidio, e 4-5 candidati (da Alberto Bombassei a Luciano Cimmino, Paolo Vitelli, Ilaria Borletti Buitoni) che insieme producono un pil paragonabile a quello di un paese africano. Poteri forti, mica bruscolini. La coalizione con Fini e Casini arrivo al 10%, poi tutto si sfarinò e in piedi rimase il solo Casini.

Ora Renzi ha solo l’alleanza con Gianfranco Miccichè in Sicilia, che dovrebbe partorire la candidatura a sindaco di Palermo del capogruppo Iv in Senato Davide Faraone. Un’alleanza che non piace affatto ai renziani che non volevano lo strappo col centrosinistra. Che non credono alle fandonie sul «matrimonio populista» tra Conte e Letta. E del resto ci vuole fantasia per immaginare Enrico Letta in qualsiasi cosa che si chiami «populista». Renziani che soffrono in (quasi) silenzio, indecisi se seguire il capo come in una setta americana o cercare una difficile via di fuga.

Una truppa allo sbando, e non è un caso che domenica Renzi abbia più volte citato «quelli che se ne vogliono andare», come per esorcizzarli, visto che senza i suoi parlamentari non conterebbe più nulla neppure sulla ruota del Quirinale.

Di certo, il rapporto con l’ex amico Calenda è al minimo storico. «Di Renzi non me ne frega niente, questo centro fritto misto mi fa orrore. E ancora: «Renzi faccia quello che gli pare, vada in Arabia Saudita, faccia il centro con Toti, Brugnaro, suo zio e suo papà». Anche la richiesta minimal, quella di piantarla con le conferenze in Arabia, è stata respinta dal capo di Iv.

Al Nazareno non nascondono la voglia di coinvolgere Calenda nel campo di centrosinistra, come leader di una lista liberaldemocratica alleata. E di fargli digerire anche il M5S. Con Letta la stima è intatta, si vedrà. E così a Renzi resterebbero solo i fedelissimi da piazzare, ma con lo spettro di dover correre da solo con il simbolo di Italia Viva, finendo nella categoria “altri” al momento dello spoglio dei voti.

E tutto questo al netto della bufera giudiziaria su Open, alla lotta contro i pm fiorentini che, finora, ha giovato all’ex rottamatore accendendo sulla Leopolda riflettori sproporzionati rispetto al reale peso di Italia Viva.

La realtà però è chiara. Dopo la sconfitta del referendum 2016 e la Waterloo delle politiche 2018, Renzi aveva due obiettivi: drenare voti al Pd con il suo nuovo partito come ha fatto Macron con i socialisti francesi. Oppure massacrare la leadership di Zingaretti (come i suoi rimasti dentro hanno fatto) cercando di incoronare un segretario a lui vicino per riprendersi il partito (Bonaccini non gli ha fatto sponda).

La scelta dei dem di eleggere Enrico Letta, e la sua vittoria alle comunali, hanno chiuso questa strada: alle politiche il Pd lo guiderà Enrico. E Matteo resta solo al centro, dove ormai non c’è più neanche Casini che ragiiona da riserva della Repubblica. Solitario y final, sognando quel 40% che mai più ritornerà. Mentre il 4% sarebbe già un trionfo.