Gli hanno detto di mostrarsi meno arrogantello e guascone e allora si piazza al centro della scena dell’elegante Auditorium del Maxxi di Roma per la presentazione del libro Avanti (Feltrinelli), già largamente anticipato dai giornali, e per prima cosa ammette «abbiamo sbagliato». Ma aggiunge subito «la comunicazione»: il massimo che può concedere è di aver fallito nel dire, non nel fare, ha sbagliato «nel proporre una rivoluzione culturale quale quella che abbiamo (parzialmente) realizzato con uno stile di comunicazione che somiglia più all’offerta di un supermercato che a un progetto politico». Insomma si dispiace di apparire «più simile al piazzista che allo statista», ma non ha altro di cui pentirsi, «le riforme le abbiamo fatte davvero. Molte bene, alcune meno», ma il problema è stato la «contronarrazione distruttiva».

RENZI HA VOLUTO il primo lancio pubblico dedicato alla stampa. «Only for you», piacioneggia offrendosi ai cronisti. Ma «you» scarseggia, la sala è mezza vuota, anche il codazzo d’ordinanza è sguarnito, c’è Richetti, Rosato, Bonafé, Bonifazi… – ma i parlamentari sono assenti giustificati, nelle aule si vota – qualche new entry della segreteria naviga in prima fila fra poltrone vuote. C’è di nuovo che stavolta sono molti cronisti a marcare visita. Certo c’è una ragione professionale: si annuncia una giornata di diluvio comunicativo, comparsate tv in sequenza, dove la proposta politica si confonderà con la promozione commerciale e distinguere l’aspirante ri-premier dall’aspirante bestsellerista sarà impossibile. Ma è anche vero che dopo il 4 dicembre l’aria è cambiata e Renzi, che pure sta facendo numeri per tornare vincente, se non proprio in declino appare un po’ un ex, un treno ormai passato, uno dal brillante futuro dietro le spalle. E il circo mediatico è un po’ stanchino.

Lui però non si fa smontare la baldanza: riparte alla volta di Palazzo Chigi – strada in salita in copertina, lui in bicicletta in quarta, come ai tempi di Palazzo Vecchio, concretamente partirà in treno come Grillo -, il libro è la scusa e la traccia dei comizi per la sua neverending campagna elettorale. «Un libro scritto da me e non da un ghostwriter», e si vede, «riflessione sulla sinistra, programma di governo, condivisione di emozioni», poi semplifica la semplificazione, «approfondimento, aneddoti e aspetto umano».

CI SI TROVA LA VERSIONE di Renzi, i mille giorni raccontati da se medesimo. Però già sentita mille volte. Ma soprattutto ci si trova il kit per il bravo militante dem, Faq, risposte a domande frequenti ad uso di chi gli farà campagna elettorale. Verità bollinate da lui sulle polemiche passate e future, già ampiamente consumate dalla stampa: le banche, lo ius soli, l’immigrazione, il populismo «di Grillo e della Lega», «l’errore di affidarsi a Bankitalia» per il dossier sulle banche. Il veto al fiscal compact nei trattati? «Un posizionamento politico del Pd», ammette che in effetti ci saranno «ricadute anche senza l’inserimento nei trattati» ma il punto è la propaganda: «varrà la riduzione di 30 miliardi di tasse» è lo slogan già pronto. E comunque «il 3 agosto daremo buon modo ai professori di discutere». E se il Pd ha già votato il primo sì a febbraio, la risposta è che «il veto lo hanno votato gli elettori delle primarie di aprile».

GLI ANEDDOTI sono quelli sui nemici da demolire, evidentemente li considera più insidiosi di quanto non dia a vedere. Sono i soliti noti, D’Alema, la sinistra Pd, Enrico Letta. D’Alema, che oggi lo attacca per l’aspirazione all’intesa con Forza italia, viene descritto come il capo degli inciucisti per aver (presuntamente) stretto un accordo con Berlusconi sull’elezione al Colle di Amato, anziché Mattarella (D’Alema smentisce, «reazioni psicotiche»). L’ex sinistra Pd, oggi Mdp che lo considera un macigno da rimuovere, viene raccontata – ed è vero – per quella che lo ha pregato di andare a Palazzo Chigi al posto di Letta: «La direzione del febbraio 2014 è in streaming. Troverete le parole di Speranza e degli altri agli atti», « Golpe di palazzo? Non è andata così. E voi lo sapete perché c’eravate. Si chiama democrazia interna». Letta, mandato a casa dagli stessi che oggi lo rimpiangono se non invocano, descritto come un bambino che «entra in modalità broncio», ma anche un furbo, «la scena del passaggio della campanella segna un investimento del premier uscente: fare la parte della vittima funziona sempre in un paese in cui si ha più simpatia per chi non ce la fa che per chi ci prova». Poche pagine dopo, dimentico della riflessione, si dichiara vittima della disinformazia: «Ancora oggi mi domando come faccia la gente a volermi ancora bene nonostante i vergognosi talk show che da tre anni dipingono di me un’immagine che alla fine non sopporto nemmeno io».

CE N’È ANCHE PER PISAPIA che viene ricordato maliziosamente per uno dei ’padri’ dell’Expo di Milano (mezza sinistra-sinistra, quella che si dispone alla sua leadership, non lo apprezzò per questa scelta) e perché lui, coalizionista, fu invece uno di quelli che remarono «contro l’Ulivo» nel ’98 (i suoi ribattono che in realtà si schierò contro Bertinotti per non far cadere il governo). La sinistra interna al Pd, quel che ne rimane: «Quando persone che hanno fatto parte della meravigliosa esperienza dei mille giorni – dopo aver condiviso tutto, anche i dettagli – prendono le distanze da ciò che abbiamo fatto insieme, non stanno facendo del male a me, ma a loro, alla loro credibilità, alla loro coerenza, alla loro affidabilità per il futuro», e così anche il ministro Orlando è sistemato.

LUI SI SENTE ANCORA LUI: «Per questo ho scritto questo libro, per invitare, coinvolgere, entusiasmare. Perché ho capito di essere depositario dei sogni di una parte degli italiani – e non per quello che sono io, ma per una serie di circostanze. Perché» bontà sua, «penso che un politico abbia il dovere di andare oltre i 140 caratteri di un tweet per esprimere compiutamente le proprie idee». Poi a domanda del cronista, se ha un piano B nel caso fallisca l’assalto a Palazzo Chigi, si ricorda che deve sembrare meno arrogante: «Lo decideranno gli italiani. Il mio obiettivo non è vivere con la fissazione di tornare a Palazzo Chigi». Ma fiuta la sfida e torna lui, «non lo decideranno gli editorialisti e i partitini».