La vigilia dell’assemblea nazionale del Pd «è un thriller, Renzi decide di notte», scherza Pippo Civati da Bologna dove annuncia ancora una volta il suo possibile addio al Pd. Civati e compagni a parte, il resto della minoranza del Pd, divisa fra apocalittici e integrati, non si aspetta niente di buono dalla giornata di oggi all’hotel Parco dei Principi di Roma. Che sarà la prosecuzione in altre stanze della guerra di guerriglia che si è consumata fino a notte in commissione Affari Costituzionali di Montecitorio. Ma con i rapporti di forza ribaltati a favore del segretario.

Ieri mattina Renzi è stato ricevuto in Vaticano con la famiglia, il sottosegretario Delrio e il ministro Gentiloni. Il giorno dopo delle manifestazioni della Cgil e della Uil, una foto con il papa dei lavoratori è un dono del cielo. Poi nel pomeriggio, al convegno sulla scuola con la ministra Giannini, ha sfoderato il suo migliore ottimismo sull’azione di governo e sul futuro: «Il 22 febbraio sarà un anno dal giuramento, vorrei trascorrere quel giorno con voi, con un grande appuntamento del Pd per raccontare le belle esperienze che ci sono nelle scuole».

Ma all’interno del partito i suoi tono sono altri: nei giorni scorsi dal suo stretto giro è filtrata la «minaccia» di rendere pubbliche le spese delle scorse stagioni del Pd. «Non c’è problema, i bilanci sono online», replica sul Corriere Antonio Misiani, ex tesoriere del partito, bersaniano passato nelle file dei giovani turchi. Ma è difficile che Renzi scelga la solenne occasione dell’assemblea dei mille per una fare le pulci ai conti dei suoi predecessori. Fra i quali peraltro c’è Dario Franceschini, uomo-chiave della sostituzione di Letta con Renzi a Palazzo Chigi; e Guglielmo Epifani, l’uomo dell’ultima stesura del jobs act, ex leader Cgil che ha voltato le spalle alla sua organizzazione nei giorni della protesta anti-governo.

In realtà oggi la minoranza si aspetta di essere messa con le spalle al muro sulle riforme che procedono con fatica nelle camere. Ieri a Montecitorio i deputati dell’opposizione interna sono usciti più volte dalla commissione contestando l’invito al ritiro di tutti i loro emendamenti al testo del nuovo senato. A Palazzo Madama le cose non vanno meglio. In commissione sono depositati 12mila emendamenti all’Italicum e circola voce che la ministra Boschi chiederà ai commissari di lavorare a tappe forzate, magari di notte, visto che di giorno l’aula dovrà occuparsi della stabilità.
Oggi dunque Renzi presenterà al partito un documento che impegna i parlamentari al sì alle riforme. «Lo schema sarà quello dell’ultima direzione. E noi ci troveremo di nuovo a decidere se votare contro o non partecipare al voto», spiega un deputato. Alla direzione del primo dicembre il dispositivo messo ai voti imponeva di «andare avanti senza indugio con le riforme in parlamento». Dove «senza indugio» significava appunto rinunciare persino agli emendamenti. Le minoranze non hanno partecipato al voto, Civati ha votato no.

Da quel giorno il confronti interno del Pd non ha fatto un passo avanti. Bersani ieri da Padova ha tuonato: «Non si è mai visto che le Costituzioni le facciano i governi». Non c’è scissione all’orizzonte, tranne quella di Civati, ma chi dissente ben è consapevole che il balletto voto-non voto non potrà durare all’infinito. In molti sono convinti che Renzi «stia drammatizzando lo scontro interno per cercare l’incidente che porterà verso il voto anticipato». Ma con quale legge elettorale? Con l’Italicum modificato e poi esteso per legge anche al senato? La voce gira, ma è una strada pericolosamente sbilanciata oltre la linea della costituzionalità, per non dire della razionalità.

Certo è che lo scontro interno cresce. Ieri il bersaniano D’Attorre, uscendo dalla commissione, ha spiegato che «il clima di disagio è legato al rifiuto di un sano metodo parlamentare nell’esame della riforma, pur in presenza di un impegno mantenuto da tutti i membri Pd della commissione a rispettare tempi e pilastri fondamentali, come testimoniano le decine di emendamenti che abbiamo ritirato». Ma alla maggioranza Pd non basta. «Partito non è luogo dove ognuno fa quello che gli pare. Nelle commissioni, parlamentari sono delegati da gruppi», twitta il renziano Marcucci. E il veltroniano Verini avverte: «Dissenso non può significare anarchia».