Dopo quasi venti anni di dibattito e vari tentativi di precedenti maggioranze, il governo Renzi ce l’ha fatta ad affondare il colpo sul sistema delle Banche popolari.

Per quanto il provvedimento riguardi solo le dieci banche maggiori, esso prevede l’abolizione del voto capitario, ovvero della norma che consente che ogni socio abbia a disposizione un solo voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute. Inoltre, a quanto si sa, il consiglio dei Ministri di ieri ha anche disposto la cancellazione del limite dell’1% per la partecipazione dei singoli soci nonché l’abrogazione dell’attuale numero minimo (200) degli stessi.

La norma che già stava in un disegno di legge sulla concorrenza è stata infilata in fretta e furia in un decreto legge, il cosiddetto Investment compact. Che differenza con i vecchi tempi quando palazzo Chigi era l’unica Merchant Bank in cui non si parlava inglese!

Non si comprendono le ragioni di necessità e urgenza di una simile scelta legislativa, avendo peraltro le banche 18 mesi di tempo per adeguarsi. Ma oramai l’articolo 77 della nostra Costituzione è diventato un colabrodo.

Il nocciolo della controriforma sta nell’omologazione di queste banche al resto del sistema. L’abolizione del voto capitario le trasforma in società per azioni, il cui fine non sarà tanto quello di favorire il credito quanto quello di fare felici gli azionisti. I mercati finanziari internazionali e la Borsa di Milano hanno gradito e subito c’è stato un vivace movimento di acquisti di titoli delle Popolari, in attesa di acquisizioni da parte dei grandi gruppi bancari. Fa quindi un ulteriore passo in avanti la concentrazione del sistema bancario italiano. Renzi ha motivato questa scelta dicendo che ci sono troppe banche, mentre langue il credito alle piccole e medie imprese. Ma il credit crunch è dovuto non al numero degli istituti bancari, piuttosto alle nuove norme sulla capitalizzazione delle medesime, nonché al clima di sfiducia che attraversa un’economia in recessione come la nostra.

In sovrappiù vengono colpite proprio le banche che per la loro natura e collocazione erano, almeno in potenza, quelle più sensibili alle esigenze produttive dei territori e ai bisogni delle famiglie. La Renzinomics procede spedita e finge di non capire che la politica del too big to fail si sia rivelata in tutto il mondo disastrosa.

Non che il sistema del banche popolari italiane fosse perfetto e che non si fossero verificati anche in questo settore distorsioni, malversazioni o scandali. Ma certamente la mossa governativa va in senso diametralmente opposto a quello necessario per rilanciare il credito finalizzato a uno sviluppo innovativo dei territori. Questo sistema avrebbe necessitato invece di una maggiore trasparenza, di un più efficace controllo non tanto sulla contabilità, quanto sulla mission che queste banche dovrebbero perseguire: quello di favorire una ripresa economica di nuova qualità, che invece si allontana sempre più.