«La manina è la mia». Alla riunione dei deputati Pd, ieri pomeriggio alla camera, Renzi mette la firma sul decreto salva-Silvio. Di più: rivendica la norma e non per coprire qualcuno del giglio magico che ha sbagliato, spiega – qui il pensiero di tutti corre al «fratellino» Luca Lotti e al suo fitto scambio con Denis Verdini, e al capo del legislativo Antonella Manzione – ma perché quel decreto, oggi ritirato, è stato «discusso e approfondito punto per punto», «non ha niente a che vedere con le leggi ad personam. Noi non facciamo leggi ad personam e non ne facciamo contra personam», né l’esecutivo mette la firma su pacchetti di norme «preparate dai tecnici».

Detta così, non si capisce allora «di chi è stata l’idea», come chiede Civati, e perché il premier ha deciso di ritirare il decreto sull’evasione fiscale per rimandarne l’approvazione in un consiglio dei ministri del 20 febbraio, come ha deciso in mattinata in un vertice con il ministro Per Carlo Padoan (con lui pace fatta, ma solo all’apparenza) all’interno di un provvedimento che sarà «potenziato». Poi passerà in parlamento e lì «avrà un momento di discussione chiaro, trasparente in cui si spiegano le norme. E poi ci si assume la responsabilità di votare». Stavolta tutto il Pd dovrà metterci la faccia.

La riunione con i deputati ha i tempi contingentati, il premier deve correre all’ambasciata francese a portare la solidarietà dell’Italia per il sanguinoso attentato al giornale satirico Charlie Hebdo. Ma il problema non è il tempo. Renzi risponde chiaro alle polemiche di questi giorni, cioè non risponde affatto ai sospetti della sinistra del Pd e anche di una buona fetta di commentatori sull’articolo 19 bis del decreto che introduce una fascia di non punibilità per i reati fiscali pari al 3 per cento del reddito imponibile. E cioè, traducendo in berlusconese, che cancella la sentenza Mediaset a quattro anni di reclusione e soprattutto l’incandidabilità per sei anni effetto della legge Severino. Anzi, chi avanza dubbi sono i soliti «professionisti dei commenti» che «non hanno mai azzeccato una previsione». Renzi soprattutto non risponde all’evidenza che rimandare la norma a febbraio, dopo il voto sul Quirinale, è un palese «pagherò», uno scambio ormai evidente con Berlusconi, che è e resta il vero garante della vita del governo Renzi. Gennaio, avverte il premier, sarà il mese della verità: o passano le riforme (con gli scambi di favori con Fi) oppure si vota. La minaccia ai parlamentari è la solita, è implausibile (non c’è una legge elettorale, quella che sta per essere approvata al senato dovrebbe scattare nel 2016), ma tanto basta a chiarire gli eventuali dubbi degli onorevoli piddini. Il primo effetto si vedrà oggi alla camera, dove si inizia a votare la riforma del senato.

L’area riformista fuori e dentro la riunione sfoggia i suoi accenti più gravi: «È una vicenda imbarazzante per tutto il Pd, ed è grave che Renzi non abbia dato una risposta chiara», attacca Alfredo D’Attorre. E il rinvio a febbraio del decreto «getta un’ombra molto pesante sul percorso delle riforme e anche in vista del confronto sul Quirinale». La verità è che sul Colle, ora che si è assicurato il pacchetto dei voti forzisti, Renzi può stare tranquillo. Per Davide Zoggia il rinvio a febbraio «lascia intendere che ci sia un accordo. Nel patto del Nazareno non ci deve essere, e così ci è stato detto, nessun altro tipo di accordo o intesa. Io non ho il sospetto. Il sospetto, se va avanti così, ce l’hanno gli italiani». Bersani lascia in anticipo la riunione con un’obiezione di fondo: «Così chi ha di più ha diritto ad evadere di più». Gianni Cuperlo chiede una riunione per discutere «quel che non va nella delega e nel Jobs act».

Ma al Renzi fase 2, quello apertamente alleato di Berlusconi, ormai ogni obiezione rimbalza. Il caso è chiuso, «inutile farsi del male», il decreto è rimandato, verrà riscritto escludendo la non punibilità per i casi di frode, promette, e bisogna avere fiducia in lui e nella sua manina. «Era una norma scritta apposta per farla saltare», interpreta maliziosamente Roberto Calderoli. «Questa è talmente grossa che qualcuno potrebbe sospettare che è voluta, un incidente per destabilizzare», ragiona Pippo Civati. Insomma è un «segnale», come lo ha definito l’avvocato Franco Coppi, legale del Cavaliere. E il segnale ora è lanciato: a Berlusconi, al suo partito frantumato che infatti adesso difende la norma come un sol uomo, al blocco sociale cui fin qui il premier aveva fatto la faccia cattiva e minacciato: «Mai più condoni».