Al termine di una nuova giornata da crisi di governo alle porte, con tanto di incontro tra la delegazione di Iv e Conte fatto saltare all’ultimo momento da Renzi e con sonora minaccia del medesimo di far dimettere le due ministre del suo partito già al termine del colloquio che, slittato ieri, dovrebbe essere riconvocato per domani mattina, è lo stesso Renzi ad abbassare la tensione: «Far cadere Conte? Non ci penso neppure ma si deve muovere».

Il ragazzo di Rignano non smette di tenere Conte sulla corda, cambia repentinamente schema di gioco e ora pone come prima condizione l’accesso al Mes. Allude solo di sfuggita a quello che fino a poche ore prima era il principale elemento di scontro, la task force che dovrebbe gestire il Recovery: «Continuo a sperare che non si parli di crisi ma di come spendere bene i soldi europei anziché affidarli a 300 consulenti spuntati dal nulla».

ANCHE CONTE ABBASSA i toni rispetto all’intervista uscita al mattino sulla Stampa, che aveva irritato al massimo non solo Renzi ma anche il Pd, perché il premier, dopo aver liquidato come «fesserie» le critiche sulla mancanza di collegialità, usava i toni di chi dà per conclusa la verifica, senza aver accolto nulla della richiesta dei dem: allargare l’area di controllo nel governo, ora limitata a Conte e ai suoi più stretti collaboratori. Nel pomeriggio il premier ammorbidisce i toni: «Non possiamo galleggiare. Sono certo che rilanceremo l’azione di governo che ha la responsabilità di andare avanti ma può farlo a determinate condizioni».

Assicura che il Piano della discordia «sarà condiviso». Non rinuncia alla sua task force ma sottolinea che avrà una funzione di controllo: «Non è pensabile attribuire a questa struttura di monitoraggio espropriazioni dei poteri dei soggetti attuatori». O dei ministri che dir si voglia.

È PACE O È GUERRA? Né l’una né l’altra. È una guerra di posizione concentrata nell’arco di pochi giorni o poche settimane. Ieri mattina Conte era pronto a incassare l’isolamento di Renzi. Considerava come decisivo lo schieramento del Pd, del M5S e ieri anche di LeU contro ogni ipotesi di maggioranza alternativa o governo diverso dal suo. I toni dell’intervista erano quelli del vincitore che detta le condizioni. Renzi, che in queste cose è rapido, aveva già deciso di far saltare l’incontro, spiegando la richiesta di rinvio con l’impossibilità di partecipare della ministra capodelegazione Bellanova. Subito dopo, però, rilancia come nel suo stile: «All’incontro ci saranno anche le ministre, pronte a dimettersi se servirà». Non sarebbe automaticamente crisi.

La sfiducia verrebbe rinviata sino all’approvazione della legge di bilancio, il 29 dicembre. Ci sarebbe tempo di trattare, ma con il conto alla rovescia iniziato e la consapevolezza che Renzi fa sul serio.

A PALAZZO CHIGI SONO convinti che le cose non andranno così e che il Renzi isolato, anzi mollato da Zingaretti e Di Maio che sino a qualche giorno fa lo avevano tacitamente spalleggiato, non potrà che arretrare. Ritengono che le bombe che continua a lanciare siano solo giocattoli rumorosi, utili per uscire a testa falsamente alta da una partita persa. Prevedono che il leader di Iv finirà per accontentarsi di qualche modifica cosmetica della task force, un cambio di nome, con «unità di sostegno» al posto di «cabina di regia», qualche particolare modificato. Perché il rischio di elezioni anticipate dalle quali uscirebbe massacrato non può permetterselo.

Nello stato maggiore di Iv fanno calcoli uguali e opposti. Sanno che le elezioni costerebbero agli alleati moltissimo. Consegnerebbero alla destra il Paese, la nomina del prossimo presidente della Repubblica, la gestione dei fondi del Next Generation Eu. Dunque si dicono che certi che, se il 29 dicembre si aprirà la crisi, entro pochi giorni ci sarà non lo scioglimento delle Camere ma un nuovo governo, magari guidato da un tecnico come Draghi o Cottarelli, che ritengono essere già pronti.

IN QUESTO DUELLO di nervi in cui ciascuno scommette sulle fondate paure dell’altro la parte più scomoda, al solito, è quella del Pd. Partito per costringere Conte a cedere parte del potere che ha concentrato nelle sue mani, si trova derubricato a esercito del premier, arma da usare contro Renzi.

Una parte dei 5S condivide questi malumori. Anche su questo conta Renzi, in una partita in cui tutti si giocano moltissimo e il Paese più di tutti.