Un gioco, quello della rottamazione, è finito. Le parti restano. E nella parte dell’eccellenza italiana da promuovere in Europa, e così rimuovere, Massimo D’Alema ci sta benissimo. La conosce. Matteo Renzi, la cui «unica vittoria» secondo un D’Alema recente sarebbe stata «cacciare me dal parlamento», già lo candida al ruolo di commissario italiano a Bruxelles. Nelle liste per l’elezione dell’europarlamento no, non gli troverà posto. Perché deve pur sempre mantenere la parte dell’innovatore. E allora assicura: «Nelle candidature ci sarà rinnovamento». Ma subito aggiunge: «Per i livelli istituzionali il governo sceglierà le persone maggiormente in grado di dare corso a questa svolta in Europa». E nel dire «questa» tamburella con l’indice sulla copertina del libro di D’Alema, Non solo euro, l’istant book che è servito ad apparecchiare l’incontro e a lanciare la fase due della rottamazione: il recupero. D’altronde Renzi, vedi con Berlusconi, agli avversari concede parecchio. E da loro parecchio riceve.

Il gioco era cominciato quattro anni fa, con falli e e controfalli di reazione. «È sufficiente che un giovanotto dica che voglia cacciarci a calci in culo che subito gli vengono concesse paginate e interviste». E il giovanotto: «Un caffè con D’Alema? Solo se lo preparo io…». Insulti, ma senza smettere mai di parlarsi. Perché D’Alema è politico troppo accorto e Renzi troppo smaliziato: bastonature e poi incontri. E adesso i voti dei dalemiani in parlamento, all’occorrenza. «Se vince Renzi non c’è più il centrosinistra». «Se vinco io al massimo finisce la carriera di D’Alema». La seconda era di certo una previsione sbagliata.

Oppure no, abbiamo assistito ieri al contrappasso di D’Alema. D’Alema che scalzò Prodi e lo consolò con l’incarico di presidente della Commissione europea. E che adesso sale sullo stesso treno, in una classe appena inferiore. Ma D’Alema non accetta biglietti omaggio, e anche nel libro d’occasione avverte Renzi che non tutto l’ultimo ventennio è da rottamare. Anzi, fu un centrosinistra vincente, stupor mundi, quello che chiamò in Italia Clinton, Blair, Schröder e Jospin per tracciare la «terza via» tra socialismo e capitalismo. E più precisamente li chiamò a Firenze, ma allora il «giovanotto» aveva vent’anni e stava con Castagnetti. E per l’Italia c’erano Prodi, appena inviato a Bruxelles, Veltroni, appena riportato a Botteghe Oscure, e D’Alema, che stava a palazzo Chigi dove adesso sta Renzi. Líder maximo i cui ricordi oggi virano un po’ troppo al rosa, visto che le terze vie erano almeno due, Blair e Jospin si detestavano e Prodi e Veltroni avevano organizzato un controvertice dell’Ulivo a New York, senza invitare D’Alema. Ma comunque il messaggio, di Massimo a Matteo, è: «Tu sei erede di una tradizione che puoi rivendicare in Europa, senza che ti prendano a calci nel sedere». La sua tradizione, chiaro.

Renzi, quello che «ha un’idea della politica molto esteriore» e «sta usando il Pd come un trampolino», incassa e replica. Quel centrosinistra, dice, non ha fatto le riforme costituzionali, né quella del mercato del lavoro. Capirai D’Alema. Che intanto precisa agli ascoltatori di non essere stato lui, bensì Renzi, a voler l’incontro nel giorno di massima audience, al ritorno del presidente del Consiglio dalla visita ad Angela Merkel. E poi serve un’altra lezioncina di storia recente: le riforme le abbiamo tentate con la Bicamerale, la legge elettorale l’abbiamo fatta, si chiamava Mattarellum «ed era più avanzata di quella di adesso», e anche «quella per l’elezione diretta dei sindaci, che ha funzionato bene» – strizzatina d’occhi. E poi sul mercato del lavoro «sono stato io nel ’97 a vedere il rischio di una frattura tra i garantiti e i non garantiti; abbiamo introdotto misure di flessibilità, di cui si è abusato, andando contro una parte del sindacato». Però l’abbiamo fatto, ricorda così D’Alema, «con attenzione a garantire la dignità dei lavoratori; oggi c’è il rischio dell’arbitrio dei datori di lavoro, bada».

Ma è un ricordo che vale dieci lire, neanche un centesimo di euro: era il congresso del Pds del 1997, D’Alema e Cofferati l’uno contro l’altro. D’Alema era quello che «le ricette keynesiane della vecchia sinistra non funzionano più», quello che voleva rompere il tabù dell’articolo 18. Allora il «rottamatore» era lui. Ed era anche il presidente della commissione bicamerale che tentò le riforme costituzionali con Berlusconi, quello che oggi sta tentando il segretario del Pd. Allora finì male. «Ricordo quel D’Alema lì», dice Renzi. E in effetti lo ricorda.

Oggi, dice il vecchio al giovane, «giochiamo nella stessa squadra». Offre le sue competenze, con l’aria del risolutore di problemi. «La riduzione fiscale che Renzi propone può avere qualche problema di copertura nel primo anno. Ma all’Europa si può far capire che a regime le coperture ci saranno, grazie alla spending review. Se poi vogliono farne un problema di parametri, che si arrangino! Secondo me questo è un discorso sostenibilissimo che possiamo fare ai nostri partner». Quando sarà «ne parleremo con la nuova commissione», magari a quel punto dall’interno, tra commissari. Il tempo dei professionisti della politica non è ancora finito.