«L’astensione è stata impressionante. Il Pd, che ha la responsabilità del governo, non può fare spallucce. In gran parte dell’elettorato c’è spaesamento e rifiuto. Sono mesi che dico che non bisogna accendere dei fuochi, che non servono a nessuno. Se si innervosiscono i lavoratori, non si pensi che gli imprenditori son contenti. In una situazione come l’Emilia Romagna non è così». Alle cinque del pomeriggio Pier Luigi Bersani esce dall’aula di Montecitorio a parlare con i cronisti. Non del jobs act, che pure dentro l’aula procede spedito neanche fosse la navicella Soyuz. Nella lunga serie di dissensi interni al Pd, la riforma del lavoro ormai un caso quasi archiviato. L’ex segretario voterà sì, anche se ancora non lo annuncia. E voterà sì l’ex segretario Cgil Guglielmo Epifani con tutta la minoranza dei riformisti-trattativisti che ieri in aula non neanche ha aperto bocca. Sventato l’ennesimo voto di fiducia, l’ultimo brivido lo darà, al voto finale – domani o forse già stasera – la pattuglia dei dissidenti che deve decidere se votare contro o uscire dall’aula. Nel primo caso sono 17 i no sicuri (fra questi Cuperlo, Civati, Fassina, D’Attorre), nel secondo il numero salirebbe a 25.

Ma oggi sono le regionali a tenere banco. La minoranza si ricompatta sull’analisi del voto. Per ora si ragiona solo sul Pd, ma presto si parlerà dei riflessi del voto sul patto del Nazareno e sulle riforme: Italicum innanzitutto. A Bersani, per ora, il risultato emiliano brucia. Brucia la «sua» Piacenza, dove il Pd è scivoltato al secondo posto dietro la Lega. Nella sua Bettola il 77 per cento dei votanti si è tenuto alla larga dai seggi. E saranno state le frane, la poca informazione, il dissesto, ma per Bersani tutti questi sono dati «impressionanti. Serve un’analisi seria».

Da Vienna, dove è in visita ufficiale (la sera torna a Roma per incontrare il presidente egiziano Al Sisi), Matteo Renzi racconta un film diverso, un mondo parallelo a quello dell’ex segretario. «La non grande affluenza è un elemento che deve preoccupare ma che è secondario. Checché se ne dica non tutti hanno perso: chi ha contestato le riforme può valutare il suo risultato» Più tardi raddoppia per non concedere nulla al brusio di dissenso che sale dal suo partito: «Negli ultimi 8 mesi abbiamo avuto 5 elezioni regionali e il Pd ha vinto 5 a zero. Oggi una persona normale dovrebbe esserne felice». Quindi la minoranza Pd «non è normale»?
La direzione ne discuterà il primo dicembre. Intanto la minoranza, incassata la sconfitta sul jobs act, ritrova miracolosamente la parola. «Quando in Emilia Romagna si reca alle urne il 30 per cento di elettori in meno rispetto alla volta precedente non ha senso dire che si tratta solo della reazione alle inchieste», ragiona Gianni Cuperlo. «Da qualche mese Renzi espone il suo progetto, o metodo, della ’disintermediazione’» – si intende il tentativo di di scavalcare i corpi intermedi, sindacati partiti in primis, per rivolgersi direttamente all’elettore – «ma se alla prima prova questo metodo porta i risultati che vediamo, forse qualche domanda ce la dovremmo fare. Si potrebbe dire che l’aumento dell’astensione è fisiologico in molte grandi democrazie. Ma l’Italia ha una storia di partecipazione. E l’Emilia ancora di più: se perdi 650 mila voti in un colpo, un’idea te la devi pur fare». Davide Zoggia è più diretto: «Se tra i corpi intermedi da rottamare c’è anche il partito, succede che poi alle urne chi li porta gli elettori?». Alfredo D’Attorre: «C’è una vasta area di sinistra che non si riconosce nell’indirizzo che il partito ha preso negli ultimi mesi». Andrea De Maria fa un passo in più: «Molti elettori del Pd hanno votato i candidati più vicini ai valori di sinistra, che hanno avuto ottimi risultati nelle preferenze e contribuito in modo significativo a portare cittadini al voto». E se l’elettorato Pd si è sfiduciato, ora «dobbiamo avere la capacità di fare sentire di nuovo a casa tanti elettori che si riferiscono ai valori della sinistra». Sotto accusa, il partito della nazione. Nessuno si spinge a dire che a Bologna il comizio finale di Renzi, quello sui sindacati che «passano il tempo a inventarsi ragioni per fare scioperi» è stato una mazzata in una città ancora e nonostante tutto rossa. Dove infatti il candidato Stefano Bonaccini si è affrettato a chiosare «che noi però qui abbiamo un ottimo rapporto con il sindacato». De Maria ammette solo che «a Bologna ci sono ancora quelli che raccontano delle lotte contro Scelba. Ed è una delle città con il maggior numero di iscritti alla Cgil».

Dal coté renziano parte la solita contraerea: Andrea Marcucci se la prende con Zoggia e compagni. Serve una riflessione su ruolo e funzione del Pd? Sì ma «a cominciare dai comportamenti di una parte della minoranza che si distingue e vota diversamente su ogni provvedimento, in sfregio alle deliberazioni del gruppo parlamentare e della direzione. Il voto non era un referendum sul governo Renzi». Ma è solo una difesa d’ufficio: è lo stesso Renzi ad autorizzare l’interpretazione quando dice che «chi ha contestato le riforme può valutare il suo risultato».

Su questi il Pd ha vinto. Ma l’elettorato si è ancora ristretto, dopo le europee. Il ministro Andrea Orlando, della maggioranza ma di area turca, parla di un astensionismo «trainato da molti fattori, dal perdurare della crisi e della disaffezione alla politica». La trasformazione del Pd in partito della nazione lascia troppi elettori a casa. In primavera andranno al voto altre sette regioni. Se si confermasse questa tendenza, per un premier non eletto alle urne non sarebbe precisamente un problema «secondario».