Da domani per un governo già fragilissimo tutto diventerà molto più difficile. La scissione spingerà Renzi a cercare con determinazione anche maggiore quelle elezioni prima dell’estate che non ha mai smesso di sognare. «Tutte le date ormai sono saltate», annunciavano già ieri sera i suoi fedelissimi. L’esigenza di impedire al nuovo partito di strutturarsi, sommata a quella di evitare una batosta alle amministrative, farà sì che cerchi in ogni modo di accorpare le elezioni politiche con le succitate amministrative, magari aggiungendo al mazzo il referendum.

Sulla carta, il governo dovrebbe disporre di una maggioranza ancora più forte. È prevedibile che una parte dei deputati di Sel critici con la trasformazione in Sinistra italiana aderisca alla nuova formazione, che si dichiarerà subito decisa a sostenere il governo Gentiloni sino all’ultimo secondodella legislatura. Il presidente Mattarella prenderà atto che la maggioranza è cambiata ma che il sostegno al governo non è venuto meno e, non essendo decaduta l’esigenza di rielaborare i brogliacci elettorali usciti dalla Consulta, chiederà certamente al governo di continuare per la sua strada.

Solo che quella strada sarà accidentata. Dal momento della scissione conclamata, infatti, la maggioranza che sostiene Gentiloni somiglierà a quella di Prodi dopo la finta vittoria alle elezioni del 2006: con uno spettro politico vastissimo, che andrà da una sinistra non più centrista alla destra centrista solo per modo di dire dell’Ncd, e ciononostante appesa a un filo al Senato, dove, a differenza di Montecitorio, non si prevedono massicci ingressi nel nuovo partito.

In queste condizioni, ogni passaggio delicato rappresenterà un pericolo mortale. Sarebbe così in ogni caso, ma lo sarà a ben maggior ragione con il partito perno della maggioranza, il Pd renziano, pronto non a fare muro ma a cogliere ogni occasione per rendere la situazione insostenibile, provocare la crisi e conquistare il voto entro giugno. Anche da questo punto di vista la situazione ricorda quella degli ultimi disperati mesi del governo dell’Unione, quando i principali partiti della coalizione, l’allora neonato Pd di Veltroni e il Prc di Bertinotti, facevano il possibile per indebolire e seppellire il governo invece di difenderlo.

La legge elettorale, che è sempre e per definizione il passaggio più delicato per i partiti, diventa in questa situazione un campo più che mai minato.

Indebolito dalle fuoriuscite, il Pd sarà ancor meno in grado di presentarsi come il palo robusto intorno al quale aggregare altre forze. Il dibattito sarà al contrario un torneo aperto a ogni esito, incluso il vicolo cieco e l’obbligo di votare subito.

La differenza con la situazione del 2008, quando serviva solo un incidente per far cadere Prodi e arrivò puntuale con l’inchiesta che coinvolgeva lady Mastella, però c’è ed è evidente. Allora si trattava di reggere per anni, obiettivo in quelle condizioni del tutto proibitivo. Stavolta è questione di un paio di mesi, dopo di che non ci sarà più tempo per sciogliere le Camere, con un Parlamento in cui nessuno tranne Renzi, neppure M5S, ha davvero interesse ad accelerare i tempi.

In un quadro simile molto dipenderà dalla determinazione del governo, da quanto sarà disposto a spalleggiare il segretario del Pd.

Le fibrillazioni degli ultimi giorni sono state molto più tese di quanto non sia apparso e autorizzano poco ottimismo sulla capacità del governo di navigare in acque tanto tempestose. Ma si sa che l’istinto di sopravvivenza, in questi casi, vuol dire moltissimo.