Il giorno dopo, continuano i festeggiamenti del governo per il passaggio trionfale della riforma costituzionale al senato (con il sostegno determinante degli ultimi arrivati dal centrodestra). Il presidente del Consiglio è assai disinvolto negli argomenti, tipo: «Se andrà in porto la riforma il presidente del Consiglio cambierà ogni cinque anni, non una volta l’anno». Ragionamento azzardato per chi, come il premier, ha scalzato in corsa da palazzo Chigi il predecessore e compagno di partito Letta. Mai più Renzi, insomma, promette Renzi.
La legge di revisione costituzionale presentata nell’aprile del 2014 ha imboccato ormai la discesa, al più i suoi avversari potranno tornare a sperare tra tre mesi quando il senato dovrà esprimere l’ultimo voto: se nel frattempo Verdini dovesse ripensarci, la maggioranza assoluta (per Costituzione indispensabile) rischierebbe di svanire. E basta ripassare la legge del 1970 sui referendum e dare uno sguardo al calendario per escludere la possibilità che il referendum confermativo si possa tenere nella primavera dell’anno prossimo, in abbinamento «tattico» con le elezioni amministrative. Nemmeno Renzi ci crede, ieri è stato lui stesso a smentire molte ricostruzioni. «Il referendum si farà nell’autunno 2016», ha detto. Al più presto a fine ottobre, aggiungiamo noi.
Con la riforma destinata a perdere centralità nella discussione politica, ecco che l’attenzione torna a spostarsi sulla legge elettorale. Il pendolo che ha governato la legislatura si dimostra efficace, ed evidentemente utile, anche adesso che la legge elettorale è definitivamente approvata (sebbene sia applicabile dal luglio dell’anno prossimo, ma questa è un’altra storia). È stato Giorgio Napolitano a riportare l’Italicum sotto i riflettori, con un passaggio del suo intervento in aula martedì, quando ha detto che «bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali».

Le preoccupazioni avrebbero consigliato di non approvare o di correggere fortemente la riforma costituzionale, ma il modo in cui la minoranza Pd ha condotto la battaglia ha portato a concludere che, ottenuto l’impegno di un’elezione quasi diretta dei senatori e confermato il sistema previsto dalla camera per l’elezione del presidente della Repubblica, tutte le «preoccupazioni» siano state risolte. E così è proprio il rappresentante della minoranza Pd Vannino Chiti a mostrarsi prudente sull’invito di Napolitano. Ricorda che «alcuni di noi avevano detto a gran voce l’anno scorso» quello che Napolitano ha notato martedì. Ma, aggiunge, «ormai l’Italicum è approvato, realisticamente una riconsiderazione potrà aver luogo dopo il referendum, al termine dell’iter della riforma costituzionale». Ragionamento dal quale non pare essere lontano Renzi, che ha pubblicamente sempre escluso ritocchi alla l’Italicum, legge indispensabile per dispiegare la sua «vocazione maggioritaria». Ancora ieri ha inserito la nuova legge elettorale nella (non lunghissima) lista dei dossier chiusi.
In realtà l’attacco all’Italicum può essere portato anche prima della fine dell’anno prossimo, e sono già pronti i ricorsi giudiziari sul modello di quello che ha portato all’abbattimento del Porcellum nel 2014. Invece il Movimento 5 stelle – che dall’Italicum ha tutto da guadagnare – ci vede un complotto: «Quello di Napolitano è stato un messaggio inviato ai suoi giudici costituzionali per preparare il terreno a una pronuncia di incostituzionalità dell’Italicum». La riforma prevede infatti la possibilità di un ricorso rapido alla Consulta da parte del parlamento. Ma prima di immaginare Renzi disponibile a concessioni sul premio alla coalizione, è bene ricordare che il punto costituzionalmente più debole dell’Italicum è la riproposizione delle pluricandidature e dei capilista bloccati. Qualcosa alla quale il premier non intende certo rinunciare.