Per Matteo Renzi la miglior difesa è sempre l’attacco. Infatti attacca, di fronte alla platea dei giovani “scolari di partito” modello XXI secolo. Ma che sia preoccupato, e molto, lo si avverte a pelle, e del resto lui stesso lo confessa: «Siamo sotto attacco, ma non ci manderanno a casa». I veri motivi del suo cruccio, però, si guarda bene dal confessarli.

Renzi teme le inchieste, anche se non è tanto ingenuo dal lanciarsi in attacchi contro la magistratura, e le teme prima di tutto perché sa quali ricadute elettorali disastrose potrebbero avere. Ieri mattina la notizia della decisione della procura di Potenza di arrivare a Roma per «ascoltare» la ministra Boschi e l’ex ministra Guidi, segnatamente in merito all’emendamento a favore del progetto Tempa Rossa, gli ha guastato la giornata.

Non è tanto questione di temere eventuali coinvolgimenti diretti: è la consapevolezza che ogni giorno di più si appanna l’immagine del governo del cambiamento sulla quale ha scommesso tutta la sua fortuna politica.

Dunque sceglie la controffensiva a tutto campo. «Chi ruba lo decidono le sentenze, ma chi scrive che siamo tutti collusi dovrà risponderne nelle sedi opportune». Allude a Grillo, querelato dal tesoriere del Pd su diretto mandato del capo, ma vuole che intendano in molti.

Quella del premier è una minaccia, nemmeno troppo velata. Poi, contrariamente a quanto in molti si aspettavano e a quanto l’imbelle minoranza del suo partito auspicava, si schiera più apertamente che mai a sostegno delle trivellazioni: «E’ giusto mantenere gli impianti in funzione». E’ un rischio calcolato. Il premier è convinto che il raggiungimento del quorum sia impossibile. I sondaggisti gli dicono che al momento solo il 30% dell’elettorato è deciso a votare. Ritiene che lo scandalo e la fase finale della campagna elettorale possano aumentare la percentuale di una decina di punti e non di più. Può esporsi senza paura, con le spalle coperte.

Il pezzo forte è uno sganassone che più sonoro e sprezzante non si può affibbiato ai suoi avversari interni. Un elogio di Sergio Marchionne, che suona quasi beffardo: «In questo Paese ha fatto più lui che certi sindacalisti. Chi è di sinistra crea lavoro».

La lode aperta, accompagnata dalla nota di biasimo per i sindacati, del simbolo più detestato dall’ala sinistra del suo partito e del sindacato è un affondo senza precedenti. Chi sceglie di restare nella «Ditta» deve sapere che il Pd ormai è il partito di Marchionne, non della Fiom e neppure di Susanna Camusso.

Anche in questo caso, il premier va sul velluto. Ormai i ribelli democratici li conosce a memoria. Sa che ogni tanto abbaiano ma non mordono né morderanno mai, e comprensibilmente non fa nulla per celare il suo disprezzo. Anche per questo le mozioni di sfiducia delle opposizioni al Senato non lo impensieriscono.

Martedì si deciderà quando discuterle, e sarà certamente a breve. Altrettanto certamente i voti di Denis Verdini si confermeranno determinanti, ma quella è ormai un’abitudine e passerà liscia, come nelle precedenti occasioni. Anche il danno d’immagine finirà depotenziato dall’impossibilità di presentare una mozione di sfiducia comune di tutte le opposizioni, che avrebbe avuto un ben maggiore impatto sull’opinione pubblica. Ma Fi non ha alcuna intenzione di accodarsi al testo pentastellato, e mira invece a presentare una mozione comune di tutta la destra alla camera.

In Parlamento Renzi non ha nulla da temere. Fuori dal Palazzo invece sì, ma proprio per questo ha l’accortezza di scegliere il campo di battaglia per lui più vantaggioso: quello del referendum sulle riforme istituzionali, che per molti elettori sarà semplicemente un referendum “contro i politici” ma che lui ha tutte le intenzioni di contrabbandare come un plebiscito: «Con quel referendum la santa alleanza di tutti coloro che sono contro di noi e contro il cambiamento verrà spazzata via».

Nel piano di battaglia del premier, le inchieste rappresentano l’incognita.

Trasformare il referendum in plebiscito per poi battere in breccia e arrivare pochi mesi dopo alle elezioni politiche va bene solo se nel frattempo non verrà espresso dal popolo votante il verdetto più temuto: «Sono come tutti gli altri».

Ieri l’autodifesa dell’ex ministra, pubblicata sul Corriere della Sera, è suonata debolissima: due chiacchiere tra coniugi di fatto. Ma Federica Guidi neppure si avvicina al cuore del sistema di potere renziano: finchè si tratta di lei il danno è grave ma limitato. Con Maria Elena Boschi, però, è tutt’altra musica.