Grinta , sorriso, sicuro di sé, «la candidatura dell’Italia? È fortissima», «Vinceremo? Porta male dirlo». L’occasione è perfetta per il genere Renzi: lo sbarco a Losanna, alla sede del Comitato olimpico internazionale, per convincere il presidente Thomas Bach della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Il presidente del consiglio è arrivato nella città svizzera ieri intorno alle 13, accompagnato dal «dream team» della futuribile avventura olimpionica: il presidente del Coni Giovanni Malagò e quello del comitato promotore Luca Cordero di Montezemolo. I due sono amici di vecchia data (è stato il primo a convincere l’altro a non buttarsi in politica, quando ne ebbe la tentazione). Insieme erano stati nominati nel comitato d’onore della candidatura alle Olimpiadi 2020, nominati dall’allora sindaco Gianni Alemanno. Candidatura che poi fu ritirata senza batter ciglio dal premier Monti, nel febbraio 2012, con una saggia motivazione: «Non rischiamo i soldi degli italiani». C’era lo spread impazzito, la minaccia del default, lo spettro del paese al collasso all’orizzonte, all’epoca. Oggi Monti non vuole più parlare su quella decisione, «legata solo a quelle precise circostanze». E forse non ne vuole parlare per non dover parlare della scelta dell’attuale governo: l’Italia 2016 ha finanze così solide da potersi permettere il rischio del megaevento?

Fra Malagò e Montezemolo Renzi ha recitato il solito numero contro i gufi: quelli che «mettono il broncio», «storcono il naso all’inizio ma poi si rendono conto che un evento come le Olimpiadi è una grande occasione. I progetti sono già pronti, il governo con il Coni sta lavorando perché lo sport è un pezzo della cultura italiana e un investimento per il futuro». Ma certo, molto dipenderà dal sindaco che vincerà a giugno nella Capitale. Potrebbe non essere del Pd. «Se vinceremo noi sarà una cavalcata straordinaria perché Roma sa coniugare tradizione e innovazione. Pancia a terra e pedalare». Intanto a Bach ha consegnato l’invito per l’inaugurazione di Casa Italia alle Olimpiadi di Rio, dal 5 al 21 agosto. E quello per Roma.

Per l’occasione è stato diffuso anche l’apposito sondaggio: secondo l’Ipsos il 66 per cento dei romani sarebbe favorevole all’evento, il 71 allargando alla provincia. Se così stanno davvero le cose, per il governo e per il partito di maggioranza non dovrebbe esserci alcun problema ad affrontare il referendum che viene chiesto nella capitale. Anzi, potrebbe essere l’inizio della «cavalcata straordinaria» di cui parla il premier. A Roma però circolano altri numeri, meno favorevoli al megaevento.

È anche per questo che il candidato della sinistra Stefano Fassina e il radicale Riccardo Magi insistono, ciascuno rigorosamente per conto suo – almeno per ora – a chiedere il referendum cittadino. «Prima di andare avanti con la candidatura di Roma il presidente del consiglio deve aspettare il referendum nel quale i romani si pronunceranno sull’alternativa tra Olimpiadi e investimenti delle stesse risorse per la mobilità sostenibile, l’emergenza casa, i campi sportivi nelle periferie», avverte Fassina. Ricordando precedenti non belli. «In un paese con il debito pubblico ai livelli dell’Italia e con un capitale indebitata fino alla paralisi delle attività ordinarie, è da irresponsabili impegnarsi al Cio senza avere un piano economico finanziario per l’evento. Nell’ultimo quarto di secolo i giochi olimpici hanno lasciato macerie finanziare in tutte le città che le hanno ospitate. Da ultimo, Londra ha fatto un buco di oltre 10 miliardi di euro». Per il 2024 ce la battiamo con Parigi, Los Angeles e Budapest. Boston si è tirata indietro per i rischi finanziari. Amburgo ha detto «no» dopo un referendum. Il 25 gennaio la questione sbarcherà alla camera, dove Sinistra italiana ha presentato un’interrogazione al governo.

Mossa criticata da Magi «perché consegna la discussione ai partiti e non ai cittadini». Il radicale è scettico sul sondaggio Ipsos, «stando al favore che registra la nostra campagna per un referendum: 7mila firme in pochi giorni». Motivo in più per farlo davvero, il referendum: «Perché fermarsi a un sondaggio se tutti i romani potrebbero esprimere consenso su un quesito?».

È proprio il referendum uno dei dieci punti che Fassina propone a Roberto Giachetti, candidato alle primarie Pd, per riaprire il confronto a sinistra. Un confronto impossibile: Renzi, premier ma anche segretario dem, di referendum non vuole sentire parlare. Dal comitato di Fassina invece informano che è partita la raccolta di firme per portare il quesito al primo vaglio della commissione cittadina (composta da tre ordinari di diritto, dal segretario Generale e dal capo di gabinetto). Una volta ammesso, entro un mese, serviranno 29 mila firme. Per la cronaca: nel 2013 furono proprio i radicali romani a ottenere che il numero delle firme necessarie al referendum, stabilito nello statuto della città, scendesse da 50mila all’1 per cento della popolazione residente.