Con meno di metà dei deputati in aula e tutte le opposizioni fuori, Matteo Renzi ha imposto una modifica sostanziale della Costituzione alla Camera. Quaranta articoli, votati uno dopo l’altro dalla sola maggioranza, che senza il premio ottenuto grazie all’alleanza con Sel non sarebbe tale, con le truppe del Capataz ad applaudirsi da sole nella notte. Uno scenario surreale che fa a pezzi non solo la Costituzione ma la concezione stessa della democrazia in Italia. Nessuna mediazione, né sostanziale né formale. Nessuna ragione per andare avanti con una pazzesca «seduta fiume», ignota ai regolamenti di Montecitorio, se non la necessità di imporre sempre la legge del più forte, l’unica che per il caudillo fiorentino abbia un senso. A completare l’opera, dopo il grottesco voto notturno, arrivano puntuali i suoi cinguettii, «un abbraccio a gufi e sorci verdi», e poi: «Non ci fermiamo».

La vittoria di Renzi è di quelle che si lasciano dietro un mare di ferite aperte e sanguinanti. Il day after è costellato da critiche e malumori che inevitabilmente prima o poi esploderanno. Il fronte più preoccupante, per il boy scout dal pugno di ferro, è all’interno del suo partito. Solo Fassina e Civati hanno abbandonato l’aula, ma molti tra quelli rimasti non nascondevano l’ira e persino chi, come Bersani, ha servito lealmente «la Ditta» (un po’ meno la Costituzione e la correttezza democratica, ma sono particolari) e ha cercato di convincere almeno Sel a restare in aula, lo ha fatto solo per senso del dovere. La prova di disciplina potrebbe non ripetersi quando la legge tornerà in aula per il voto finale, l’8 marzo. «Non ho alcuna intenzione di votare in un parlamento semivuoto. Se aver votato in una notte 350 emendamenti a una riforma costituzionale è un record, è record negativo», dice Francesco Boccia, ma la sua, per ora, è una posizione personale.

La minaccia della minoranza è l’unica che possa turbare il decisionista. Degli strepiti delle opposizioni, che pure sono altissimi e del tutto giustificati, se ne frega. Il M5S lancia una proposta estrema: le dimissioni in massa dei parlamentari per imporre le elezioni anticipate. «Siamo ai limiti del colpo di Stato bianco. C’è una sola via d’uscita: sciogliere il parlamento e andare a nuove elezioni», scrive sul blog Grillo, e per raggiungere il risultato chiede a tutte le opposizioni di dimettersi. E’ propaganda pura. Grillo sa perfettamente che i parlamentari non si dimetteranno, dunque mira a dimostrare che il suo movimento è l’unica opposizione davvero pronta a tutto, non a ostacolare davvero la marcia devastante del governo Renzi. Durissima anche Sel, con Vendola che parla di «bullismo istituzionale».

E Forza Italia, che questa «deriva autoritaria» (parola di re Silvio) la ha sin qui tenuta a battesimo? Storia di ieri. Se qualcuno se la ricorda ancora non dimora ad Arcore. «Il combinato della legge elettorale e della riforma produce un mostro giuridico che mette a repentaglio la stessa democrazia parlamentare», scopre Brunetta, e aggiunge che «presenteremo al presidente della Repubblica un testo che sarà il nostro manifesto per la difesa della Repubblica».

Il presidente in questione è una delle principali incognite sulla strada del Panzer fiorentino. Martedì Mattarella vedrà i rappresentanti delle opposizioni, in una situazione in cui lo strappo del governo è troppo palese per nasconderlo. E’ vero che Mattarella si è appena insediato, ma far finta di niente vorrebbe dire cominciare il mandato malissimo. La seconda incognita è la minoranza del Pd, che certo non brilla né per coraggio né per determinazione. Infatti D’Attorre si è affrettato a mettere le mani avanti: «Dobbiamo lavorare per riportare le opposizioni in aula, non per uscire anche noi». In realtà solo la tracotanza del premier potrebbe costringere la timidissima minoranza ad assumere una posizioni ferma. In quel caso, però, votare la riforma senza neppure le proprie truppe in aula potrebbe rivelarsi troppo persino per Renzi.

Una volta votata, la riforma passerà al Senato per la seconda lettura, che tuttavia riguarderà solo i passaggi della legge modificati a Montecitorio: pochi e secondari. Da questo punto di vista il governo non rischia niente. Se però il Senato modificasse anche una sola virgola del testo che arriverà dalla Camera, non si tratterà più di seconda ma di prima lettura, e i tempi slitteranno di parecchio.

Molto più insidioso il capitolo legge elettorale. Se la Camera la modificherà, anche di poco, dovrà tornare al Senato e lì, senza più il sostegno di Fi, il pericolo di grosse sorprese è concreto. Non a caso quei forzisti contrari alla riforma sin dall’inizio, come Augusto Minzolini, puntano su questa carta. Al punto di cercare un contatto diretto addirittura con Rosi Bindi.