Certe volte viene da pensare che davvero nei proverbi sia racchiusa una qualche saggezza popolare. Ascoltando la lunghissima relazione di Matteo Renzi di fronte alla direzione del suo partito, riunita per la prima volta dopo la mazzata delle comunali, era inevitabile pensare che in effetti non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Lo sconfitto nelle urne è arrivato all’argomento dolente quando già parlava da oltre un’ora, giusto per segnalare che non è mica da questi particolari che si giudica un segretario. Quindi ha ripetuto cinque volte consecutive che il voto «è molto difficile da decifrare», «complesso da sintetizzare», impossibile da delineare come «tendenza nazionale». Nonostante la platea fosse assiepata, tanto da aver dovuto convocare le assise in un Hotel invece che al Nazareno, ce ne fosse stato uno tra i presenti a dargli una mano per uscire dalle tenebre. Uno tanto franco da dire forte e chiaro che quel risultato si chiama sconfitta netta, di quelle che promettono catastrofi prossime venture.

Lo aveva fatto prima della direzione Bersani, in un’intervista a SkyTg24, «o si cambia o si va a sbattere». Dal palco quello che si è avvicinato di più a nominare la nudità del re è stato Gianni Cuperlo: «Matteo, esci dal talent. Senza una svolta condurrai la sinistra a una sconfitta storica». Eppure proprio quella clamorosa negazione della sconfitta è la pietra angolare di una relazione che si può riassumere in un conciso Hic Manemibus Optime: va tutto bene, si procede senza correggere una virgola.

Quando parla del referendum Renzi giura di voler evitare l’allarmismo. «Tanto ci hanno già pensato altri», aggiunge soddisfatto con riferimento alle apocalittiche profezie di Confindustria in caso di sconfitta. Matteo invece pensa positivo. Preferisce illustrare le magnificenze del Mondo Nuovo che arriverà se vinceranno i Sì, concludendo così un ciclo di riforme attese durato vent’anni. Poi «si apre il futuro». Le città diventeranno smart cities, potremo finalmente usufruire dei frutti del progresso tecnologico. Una favola.

Un video di Napolitano che invitava a riformare di corsa dopo esser stato rieletto presidente, «e ricordate che lo avete applaudito tutti», un altro con Cantona che spiega quanto passare la palla sia più bello del segnare in proprio, roba che nemmeno Veltroni nei momenti più melliflui, una bugia sulla personalizzazione del referendum voluta dal fronte del No certo non da lui, e si può rispondere a chi accusa il governo di essere rimasto sordo e cieco di fronte al disagio sociale. Macché. Mai si era visto un simile «cantiere sociale». Mai un esecutivo aveva fatto tanto contro la povertà: cos’altro è se non una guerra santa contro la povertà il Jobs Act? Quello sì che crea posti di lavoro, benessere e felicità, mica la roba assistenziale che propongono i paladini del reddito di cittadinanza. Decenni di studi e sperimentazioni sociali in mezzo mondo vengono così ridotte dal ruvido ragazzo di Rignano a «messaggio devastante». Nel silenzio di una minoranza che riesce a balbettare critiche sulla gestione del partito, ma oltre non sa andare.

Sul partito Renzi picchia: «Se volete che io lasci, convocate un congresso e vincetelo. Il tempo di chi affossava i leader dall’alto della sua intelligenza vera o presunta è finito. La strategia ’conte Ugolino’ non funziona più». A D’Alema di certo fischiano le orecchie, e forse anche a Franceschini, quando il premier ironizza sul fatto che «renziani last minute non ce ne sono più. Ci sono quelli che scendono dal carro, e quando cercheranno di risalire troveranno occupato».

Di Italicum Renzi non parla. Lo fa proprio Franceschini, proponendo il passaggio al premio di coalizione. A rimbeccarlo provvede Orfini, che a rassegnare le dimissioni dopo la catastrofe romana neppure ci pensa: «Il premio di coalizione no. Renderebbe obbligatorie alleanze con tipi come Verdini». Da Oscar alla faccia di bronzo. De Luca, il campano tosto, si abbandona una delle sue abituali trivialità definendo Virginia Raggi «una bambolina imbambolata». Speranza propone un documento che dovrebbe garantire diritto di cittadinanza nel partito anche a chi al referendum è per il no: viene prontamente bocciato. Cuperlo è l’unico ad alzare i toni: «Non abbiamo sbagliato la campagna elettorale ma il racconto del Paese. Stai disperdendo una storia politica che è anche mia».

Renzi replica e se la gode un mondo a sculacciare la minoranza: «Io sto fuori dal talent. E’ il vostro racconto a essere allucinante. E’ grave che non abbiate consapevolezza della responsabilità che oggi grava su di noi. Raccontate ogni giorno una macumba mentre l’unico racconto possibile è quello di un’Italia che dice sì».

Finisce così, e forse nulla racconta lo stato del Pd e del suo segretario meglio della povertà di questa direzione che avrebbe dovuto fare il punto su un disastro già compiutosi per cercare di evitare quello che lo aspetta e non ha detto nulla.