Trovare i due nemici che si sono affrontati nei decenni della seconda Repubblica a dire più o meno la stessa cosa è un fatto più unico che raro. Invece Romano Prodi e Silvio Berlusconi bocciano in tandem la missione militare in Libia. «Spero che il governo non commetta l’errore di intervenire», dichiara da Roma l’ex Cavaliere, e non allude solo alle truppe sul terreno: «I bombardamenti sono il peggio. Portano vittime civili, migrazioni e i migranti non tornerebbero più indietro perché ci troverebbero solo macerie».

Parole che, incidentalmente, mettono una seria ipoteca sul miraggio di un voto azzurro per la guerra, ove mai si arrivasse a discutere di una tanto secondaria faccenda in Parlamento. Fi sarebbe all’opposizione, come Sel, come l’M5S, come la Lega e naturalmente a differenza dei verdiniani. «La guerra è l’ultima cosa da fare», concorda da Genova il Professore: «O c’è un unità vera che ti chiama, e allora vai a ricostruire, oppure chiunque vada è nemico di tutto il popolo libico». I due ex rivali sono in ottima compagnia. La pensa come loro, stando ai sondaggi, la stragrande maggioranza del popolo italiano. Ed ecco spiegata la quasi incontenibile irritazione che si sarebbe impadronita del premier ieri, a fronte di una stampa che parlava unanime di guerra imminente. Renzi deve fronteggiare una situazione che presenta diversi aspetti, tutti incerti e spesso in contraddizione tra loro. È obbligato a compiere miracoli d’equilibrismo, e l’ultima cosa di cui ha bisogno sono strattoni che rischiano di farlo precipitare.

Renzi deve tener conto di un’opinione pubblica massicciamente ostile alla guerra. Conosce le minacciose conseguenze di un eventuale conflitto: impennata della migrazione e alto rischio di rappresaglie terroristiche. Però sa anche che per gli interessi italiani in Libia, già bastonati di brutta dalla precedente guerra, quella imposta da Napolitano a un Berlusconi giustamente contrario, sbagliare i tempi e permettere ad altri di sbarcare per primi sarebbe esiziale. Non dimentica il fronte europeo: da un lato una guerra oscurerebbe i risultati che immagina più che soddisfacenti del braccio di ferro sulla flessibilità, ma dall’altro la disponibilità italiana ad assumersi la pesante e pericolosa responsabilità di guidare l’intervento potrebbe rivelarsi un’ottima moneta di scambio con la comunità internazionale, euroburocrati inclusi.

Dunque il premier italiano da un lato fa il possibile per non impegnarsi in un’avventura che in realtà spera ancora di evitare, trincerandosi, come da saggio dettato prodiano, dietro la necessità che prima di tutto la Libia si riunifichi. Eventualità purtroppo remota. Allo stesso tempo chiarisce agli eventuali futuri alleati in armi che, nel malaugurato caso, l’Italia non sarebbe di rincalzo ma alla testa della spedizione. Incaricato di illustrare la magica quadratura del cerchio, smentendo i media felloni e bugiardi, è già a metà mattinata il presidente della commissione Difesa al Senato Nicola Latorre, uno dei pochi ex dalemiani sopravvissuti al repulisti renziano: «Sembra anunciarsi un nuovo ‘sbarco in Normandia’: rappresentazione del tutto priva di fondamento, sia nell’immediato che in un secondo momento. Il fatto che le forze armate siano pronte non significa che l’ipotesi di un intervento militare sia all’ordine del giorno».

E che fanno, presidente? Si addestrano? Ingannano il tempo? Preparano la parata del 2 giugno? Dopo Latorre arriva nel pomeriggio una «nota informale» di palazzo Chigi, dettata da Renzi:

«Nessun interesse e nessuna possibilità di azione militare. Casomai interessati a successo opzione diplomatica». Stesse cose dirà in Parlamento Gentiloni, mercoledì prossimo. Il punto dolente è che i soldati italiani in Libia, se ancora non ci sono, ci arriveranno presto: quei 50 militari della Folgore che, grazie a un emendamento folle al decreto sulle missioni militari approvato alla cieca dal Parlamento sull’onda del dopo Bataclan e contrastato da Sel in una sorta di distrazione generale, il capo del governo può spedire chi vuole senza regole di ingaggio, senza limiti d’azione, senza ruolo del ministero della Difesa e senza dover consultare il Parlamento.

Di guerra dunque non si parlerà. Si dovrà invece parlare della liberazione dei due ostaggi superstiti, ancora più misteriosa del solito. È stato un blitz? Si sono liberati da soli? Trattativa? E come mai la liberazione proprio subito dopo l’uccisione dei loro due compagni di prigionia? Era davvero impossibile salvare Salvatore Failla e Fausto Piano? Se lo chiedono i parenti delle due vittime.

Se lo chiedono i rappresentanti di tutte le forze politiche e molti reclamano che il governo riferisca subito, «anche aprendo il Parlamento domenica», insiste il capo dei deputati Sel Arturo Scotto. Non saranno accontentati.