Come nel 2016 per il Sì al referendum costituzionale, anche questa volta Romano Prodi sceglie di schierarsi sul finire della campagna elettorale e anche questa volta richiamandosi al «dovere» della scelta. Curiosamente, ricorre ancora alla memoria della madre. All’ormai celebre «Romano, meglio succhiare un osso che un bastone», che servì a giustificare l’appoggio a una riforma che pure piaceva assai poco al professore, fa adesso seguito il ricordo di un’altra frase della signora Enrica Prodi, maestra elementare: «Quelli che sono partiti tristi per la guerra non sono tornati, quelli che sono partiti con il sorriso invece sì». Un invito a battersi senza perdere l’allegria che di questi tempi e con questi sondaggi al Pd può apparire lunare. Né d’altra parte l’uscita di Prodi serve a far ritrovare il sorriso a Renzi.

Nel suo «ritorno» sulla scena politica – «dopo nove anni», dice, retrodatando l’addio ai mesi successivi alla fine del suo secondo governo, quelli della grande freddezza con il Pd di Veltroni – il professore evita accuratamente di nominare Renzi. E mette tutto il suo peso in appoggio alla campagna per la conferma di Gentiloni a palazzo Chigi. Lo dichiara: «Sono qui anche per un riconoscimento al lavoro che sta facendo Paolo». E aggiunge una definizione dell’attuale capo del governo che è un po’ l’antitesi del segretario del Pd: «La serietà al governo».
Anche Gentiloni si fa meno prudente. Si colloca pienamente nella storia di un centrosinistra assai diverso da quello della rottamazione: «Siamo nati con l’Ulivo sotto la leadership di Romano e non è che dopo venti anni ce lo dimentichiamo e facciamo una scelta diversa». E infila un paio di omaggi che sono due stoccate in codice al renzismo arrembante: «Questa legislatura è nata nel contesto drammatico della mancata elezione di Prodi al Quirinale»; «Con Romano siamo riusciti a vincere due volte e non sempre ci riusciamo».

Non è questione di accenti, ma di sostanza. Lo schema prodiano è incentrato sulla coalizione di forze diverse, che ai tempi dell’Unione arrivò, non gloriosamente, a raccogliere ben nove partiti. Il professore non parla mai di un partito e sempre di alleanza: «Sono qui per sostenere la coalizione di centrosinistra». Anche Gentiloni ripete la formula: «Coalizione a guida Pd», «il Pd e i suoi alleati». Lo schema renziano era invece quello della vocazione maggioritaria e solitaria, rimasto tramortito dalla crisi del partito. Se poteva avere un senso ai tempi della corsa al 40%, non ne ha alcuno con il Pd inchiodato a una percentuale prossima alla metà. Eppure Renzi insiste a guardare solo al Pd, al limite ridimensionando gli obiettivi: «Possiamo essere», anzi «siamo già il primo gruppo parlamentare».

Ma anche questo non è affatto sicuro. Perché la legge elettorale che ha obbligato il segretario Pd ad alleanze vissute con palese fastidio non garantisce in maniera automatica quel travaso di voti dalle liste minori al Pd sul quale Renzi ha basato i suoi calcoli. Il buon andamento della lista di Emma Bonino, che può superare il 3%, e la cattiva performance degli altri alleati, centristi e gli stessi verdi-prodiani che rischiano di non raggiungere l’1%, può sottrarre ai democratici un buon numero di parlamentari. Alla camera sono in ballo una ventina di seggi in più o in meno per Renzi. Solo in questo senso si può dire che la spinta di Prodi a «Insieme» sia anche un favore a Renzi, ma è un aspetto tecnico che non deve fare ombra alla sostanza del discorso del professore: un endorsement per un centrosinistra post renziano. Nemmeno c’è da giurare troppo sull’impegno di Prodi per la lista di Bonelli, Santagata e Nencini, visto che un po’ di prodiani doc sono candidati con la lista +Europa di cui Prodi condivide naturalmente l’impostazione.
Ecco perché Renzi non si fida né si rallegra del «dono» che gli ha fatto Prodi, e lo accoglie freddamente. «La sua scelta è comprensibile», dice al Tg1, e nulla più. Neanche nei meme che produce quotidianamente per facebook il segretario Pd può fare a meno di Gentiloni. In quello di ieri il presidente del Consiglio è più evidente di lui e lo slogan «l’aria sta cambiando» sembra così una rassegnata presa d’atto.