La mistica dell’apparire resterà sempre quella del liceale inginocchiato in preghiera in piazza della Vittoria, davanti al classico Dante. Ora che è segretario nazionale del Pd e a maggio dice di voler ritornare sindaco di Firenze, Matteo Renzi cerca comunque di smussare alcune convinzioni. Fino ad abbracciare, allargando il suo territorio di caccia al voto, le unioni civili. Declinate come “civil partnership sul modello tedesco”, con uno slogan un po’ fumoso ma di sicuro effetto: “Coppie dello stesso sesso devono avere diritti degni di un paese civile”. Attenzione però: i nobili propositi dati all’ordine del giorno della prima segreteria democrat del 2014, organizzata dal leader “in uno dei luoghi più belli del mondo”, devono finire in secondo piano rispetto al principale obiettivo della giornata: “Chi oggi pone il tema delle unioni civili – sentenzia Renzi – non vuole affrontare il punto centrale: in una settimana vogliamo una risposta sulla legge elettorale”.
Al centro del mirino c’è sempre il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Nome cui Renzi accoppia, a più riprese e con perfidia anche meritoria agli occhi dell’elettore liberal, quello di Carlo Giovanardi. La tattica è quella della guerriglia: nonostante l’azzardo del costituzionalista-pasdaran Ceccanti (“Quanto dice la Consulta non è un diktat”), almeno fin quando la Corte Costituzionale non avrà dato la motivazioni della sentenza di cancellazione di una parte del Porcellum, sarà difficile iniziare una vera discussione sulla legge elettorale. Ma nell’ottica renziana il messaggio mediaticamente potente prevale sempre sui noiosi dati di fatto. Inoltre, con Giorgio Napolitano garante del governo Letta-Alfano fino almeno alla fine del semestre europeo, quale altra strada potrebbe percorrere il Pd di Renzi se non quella di tenere sempre il pallino del gioco? Con il duplice effetto di magnificare il dinamismo del partito, e di innervosire sempre più gli avversari. In prima fila l’alleato di governo, che magari potrebbe fare un passo falso.
Nella conferenza stampa finale che doveva toccare a Debora Serracchiani e che invece è tornata nelle sue mani, Renzi ha anche anticipato la campagna di primavera del Pd. Con segreterie itineranti lì dove a maggio si voterà per le amministrative, per catalizzare l’attenzione di nuovi, potenziali sostenitori. E con l’ammissione di una debolezza, almeno ai suoi occhi. Quella delle elezioni europee dove il leader dei partiti del Pse, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, non ha certo l’appeal mediatico di Alexis Tsipras. Così il segretario Pd mette le mani avanti: “Le europee sono un passaggio importante, ma non certo lo spartiacque della politica mondiale”.
Al tempo stesso, con l’abilità del giocoliere con le tre carte, Renzi omaggia Mario Draghi (“suo il merito per aver abbattuto lo spread”), e batte un colpo sulla camicia di forza del 3% nel rapporto deficit-pil. Ma lo fa alla sua maniera: “Dobbiamo tenere i conti in ordine. Però anche la Francia e la Germania in passato hanno sforato. E la Germania lo ha fatto con il cancelliere Schroeder, che in quel periodo stava facendo le riforme del lavoro”. Quelle riforme – a partire dai temibili “mini job” cui solo ora, a furor di popolo, la Spd tedesca ha imposto una pur moderata revisione – cui il Pd di Renzi guarda invece con grande attenzione. Anche se del “Job act” oggi non si parla, rinviando l’appuntamento alla direzione del 16 gennaio: “Intavoleremo la discussione con i nostri parlamentari, tecnici ed esperti”. E che il sindacato resti al suo posto. Così come doveva fare la magistratura ai tempi del Cavaliere rampante.
Sia il “Job act” che la legge elettorale, annuncia Renzi con la consueta messaggistica collaterale (“impediremo che la politica perda tempo, noi in tre giorni abbiamo fatto più di quanto fatto nei tre anni precedenti”), devono finire nel patto di coalizione. Quello che in teoria dovrebbe far andare avanti il governo. Ma soprattutto la legge elettorale è la priorità: “La prossima settimana scopriamo tutti le certe, entro fine gennaio si va in commissione e a metà febbraio in aula”. Insomma la Consulta, mai nominata, si sbrighi. Perché il Pd renziano ha molta fretta. Paradossalmente, s’intende, come ce l’ha Silvio Berlusconi.