Il primo diretto arriva alla prima frase: «La legge elettorale va votata così com’è». All’assembea dei deputati Pd, ieri sera nell’affollatissima aula dei gruppi di Montecitorio, Matteo Renzi sgancia immediatamente il primo destro alle minoranze. Neanche il tempo di riaversi e parte il secondo: «Il governo a questa legge elettorale è legato, nel bene e nel male». Traduzione, ma non ce n’è bisogno: l’Italicum non si tocca, se non passerà salterà la legislatura. Quando si dice chiedere un voto libero. Poi però, come se niente fosse, con aria perfettamente innocente il premier invita l’assemblea ad essere «un luogo di dialogo» e gli altri partiti a imparare dal Pd: «Per chi ama il Libro della Giungla fuori di qui ci sono tanti Tabaqui (sciacalli, nel romanzo di Kipling ndr). Ma anche gli altri dovrebbero abituarsi alla bellezza della discussione democratica». Vero: ai deputati dem nessuno nega il diritto di parola, come l’ultima sigaretta a un condannato a morte. Giochi pure chi vuole a fare il rappresentante della nazione come recita l’art.79 della Costituzione. Purché alla fine ciascuno si ricordi che si deve ratificare «quanto deciso nella direzione del partito». Sennò tutti a casa.

E comunque va bene la discussione, si emenda poi Renzi, ma senza esagerare: «Oggettivamente la mediazione sulla legge elettorale c’è stata ed è in linea con il dibattito interno al Pd. Ora la nostra discussione deve essere depurata da toni di Armageddon». Non ci saranno dunque epurazioni, ma ’depurazioni’.

Renzi argomenta: il premio alla lista previsto dall’Italicum non può essere modificato perché nasce dall’accordo con i piccoli partiti sulla soglia di sbarramento che hanno ottenuto la soglia del 3% dall’8 di partenza. Ma qualche cosa Renzi può concedere, tanto per non fare la parte del cattivissimo: qualche modifica alla riforma costituzionale che prima o poi arriverà in senato. È una finta, lo sanno tutti: ormai di quella legge si votano solo le poche variazioni introdotte alla camera. E, ironia della sorte, proprio dalle minoranza. Che ora se vuole votare sì all’Italicum dovrà strillare alla vittoria strappata sulla riforma del senato a danno delle sue stesse modifiche. Un capolavoro renziano, una trappola in cui buona parte di Area dem cadrà con tutti i piedi.

Subito dopo parla Roberto Speranza. Il capogruppo rassegna le sue dimissioni. Il suo dissenso sull’Italicum «è profondo dissenso» ma, assicura, «sarò leale al Pd». Cioè non voterà contro l’Italicum. Quanto alle dimissioni Renzi in realtà vorrebbe tenerlo al suo posto, dove è stato messo da Bersani. Anche se un eventuale cambio in corsa non fa né caldo né freddo al premier. Ettore Rosato, già attivissimo vicecapogruppo, renziano di rito franceschiniano, è pronto ai blocchi di partenza. Il giovane lucano, invece, ambisce alla guida di un’Area riformista ricollocata su posizioni non anti-renziane e questo, nonostante la sua natura prudentina e moderata, mal si concilia con il profilo istituzionale di un capogruppo. Nel pomeriggio Speranza aveva sentito dalla viva voce di Renzi l’ennesimo niet sulla riforma elettorale. Ora toccherà a lui guidare la frenata di Area riformista. Chi – come Bersani e gli altri della ’vecchia guardia’ – non voterà l’Italicum sarà costretto a intestarsi il rischio di far saltare il governo. E di farlo – questo già dice la propaganda renziana – in nome delle preferenze e del premio alla coalizione, e cioè di una cosa «che nessuno nel paese capirebbe».

Mentre il manifesto chiude, la «libera» discussione dei deputati Pd va avanti fino a notte. Già nel pomeriggio un sms avvertiva i deputati che il voto si sarebbe svolto intorno alle 23. Ma dalle prime battutedi Renzi, le minoranze non partecipano al voto. Sarà forse l’ultima decisione unitaria. Poi ciascuno andrà per conto suo: i ’diversamente renziani’ orientati sul sì, gli irriducibili fermi sul no. Oggi si incontreranno per decidere quale sarà l’atteggiamento da assumere intanto in commissione, dove il pressing dei 5 stelle sulla sinistra Pd per cambiare la legge è fortissimo. Poi in aula.