Matteo Renzi ha perso, per la prima volta, un braccio di ferro con il suo partito. Questo non vuol dire che andrà a casa, né che farà «il senatore di Scandicci», anzi già lavora ad un’associazione sul modello macronista di ’En Marche’, dove si riverseranno le Leopolde. Ma questa sarà un’altra storia.

NEL FRATTEMPO ci voleva la batosta delle urne, l’implosione del Pd e il governo avviato verso destra per far alzare la voce al gruppo dirigente dem. L’ultima sfida, quella delle dimissioni postdatate e cioè operative «al termine della fase di insediamento del parlamento e del nuovo governo» (testuale), Renzi l’ha persa. Lunedì prossimo, alla direzione, il presidente Matteo Orfini leggerà la breve lettera che ha ricevuto lunedì scorso dal segretario prima che si presentasse dimissionario davanti ai cronisti: poche parole burocratiche.

POI IL VICESEGRETARIO Martina leggerà l’ordine del giorno che impegna i nuovi gruppi parlamentari a stare all’opposizione di qualsiasi governo, 5stelle o leghista che sia, «dove gli elettori hanno deciso che dobbiamo stare». Sarà approvato a maggioranza, con il no dell’area presidente della Puglia Michele Emiliano, quattro voti.

RENZI FA UN PASSO INDIETRO. Ma resta nella cabina di regia del Pd dei prossimi mesi. Comunque la maggioranza renziana senza Renzi – e con la defezione di Franceschini ma non di tutti i centristi – è convinta di avere i numeri per eleggere i presidenti dei gruppi parlamentari. La prudenza però consiglia di non procedere per strappi. Alla camera sarà eletto un nome di mediazione, quindi non Maria Elena Boschi. Al senato invece andrà un fedelissimo. Renziana sarà in sostanza la delegazione che andrà al Colle quando Mattarella chiamerà alle consultazioni: Martina, Orfini e i due capigruppo.

NONOSTANTE LE PROFESSIONI di opposizione intransigente, dal Nazareno non si esclude che sulle presidenze di camera e senato una qualche trattativa si potrebbe aprire. «Se si formerà una maggioranza che volesse dare alle opposizioni una presidenza, potremmo pensarci. Proprio perché saremo opposizione». Chi oggi sta sulla plancia di comando del barcone dem non si fida neanche del voto che lunedì: «Ora dicono tutti che non vogliono trattare con i 5 stelle. Ma fra due mesi, quando le pressioni si faranno forti?».

LA GUERRA CIVILE che si è scatenata nel Pd è dunque in realtà una guerra di parole. Dopo il cannoneggiamento degli «ammutinati del Nazareno» (in prima fila Luigi Zanda e Andrea Orlando) che gli chiedevano di formalizzare le dimissioni, Renzi ha ribadito attraverso il portavoce del Pd Matteo Richetti che la «pagina nuova» del partito (così la chiama la minoranza) inizierà dalla prossima settimana: «Lunedì la direzione individuerà una reggenza», ha spiegato a Cartabianca (Raitre). E se Renzi non vi parteciperà «sarà la dimostrazione che il passo indietro è anche fisico».

RENZI IN REALTÀ non ha ancora detto ai suoi se ci sarà o no. Ma i suoi si stanno attrezzando a restare maggioranza anche senza di lui. La minoranza, portata a casa l’uscita di scena (temporanea) del segretario, allarga il tiro: «Lo statuto del Pd dice che se cade il segretario si dimette tutto il gruppo dirigente», dice Andrea Orlando a Porta a Porta (Raiuno). La sua corrente Dems ieri si è riunita alla camera. Aula Berlinguer strapiena a dispetto della decimazione dei posti in parlamento. «Lunedì chiederemo di cambiare pagina, dopo la disfatta del 4 marzo e tre anni di sconfitte ininterrotte», spiega Daniele Marantelli. La richiesta è quella di una «gestione collegiale» per aprire una «fase costituente» del Pd.

MA ALLA FINE SARÀ LO STATUTO a guidare la transizione verso l’era post Renzi. Il vicesegretario Martina viene definito da molti «reggente» o «traghettatore» verso il congresso. In realtà nonostante la batosta, il Nazareno non apre nessuna fase straordinaria. E gli uomini e le donne della maggioranza renziana resteranno nelle proprie trincee, al netto degli ammutinati e delle dimissioni individuali. Fino all’assemblea, come spiega Orfini: «Non ha senso disquisire del percorso conseguente le dimissioni che è chiaramente definito dal nostro statuto e che non consente margini interpretativi né soluzioni creative».

IL PRESIDENTE CONVOCHERÀ l’assemblea nazionale per metà aprile, forse il 15. E lì si deciderà se eleggere un segretario senza passare per le primarie oppure aprire il percorso congressuale. La prima è l’opzione più quotata, anche nella minoranza orlandiana. Perché al momento nessuno, né post-renziani né anti, hanno un candidato da lanciare.