«Se chi è al governo non è in grado di fare da solo chieda una mano». Salvini non ferma l’offensiva moderata. Allarga anzi il raggio d’azione: non più solo la proposta di un tavolo comune delle regole, ma anche quella di collaborare con il governo, ove dovesse chiedere un aiutino. La sterzata moderata del leghista ora non sembra più una boutade. Risponde a una strategia, anche se ancora difficilmente comprensibile.

Quella strategia, con ogni probabilità, è stata decisa con Matteo Renzi. I due si sentono, si scambiano opinioni, probabilmente qualcosa in più. Di certo nel suo intervento al momento del voto sulla manovra, il leader di Iv ha inviato segnali in quantità sia al capo leghista che alla maggioranza. Positivi nel primo caso, l’opposto nel secondo. Retorica e propaganda a parte, Renzi ha picchiato duro: «Proporremo un piano shock, 120 miliardi di investimenti, per sbloccare i cantieri e rilanciare il Paese. Se la Lega vuole essere seria e responsabile verso questo parlamento, lo voti». Non è un amo lanciato a caso e infatti poco dopo il capogruppo leghista Romeo, pur in un intervento tra i più ringhiosi, apre una parentesi per anticipare che la Lega è pronta ad appoggiare lo shock di Renzi.

L’ex premier non si ferma qui. Su tasse ed evasione usa toni e parole quasi identici a quelli che avrebbe scelto Salvini: «C’è già un’Italia viva: composta da lavoratori, imprenditori e artigiani che non si possono considerare potenziali evasori». Plastic e Sugar tax, conferma, devono sparire. Anche sul tavolo proposto da Salvini, Renzi è l’unico a non chiudere la porta: «Dal no al Mes alla proposta di un governo Draghi è una simpatica tarantella… Che merita di essere approfondita». La conclusione non è rassicurante per Conte: «La stabilità non può essere immobilismo. Non neghiamo la fiducia ma serve un cambio di passo». Nel corso di un lungo pomeriggio passato a tenere banco con i giornalisti, era stato più caustico: «Il governo regge? Fino al 7 gennaio di sicuro».

La manovra a tenaglia dei due Mattei è ancora confusa. La sola certezza è che c’è e non è neppure ai primissimi passi. Per la maggioranza è una pessima notizia. Ieri sera era previsto un vertice non facile, il primo della «verifica» che Conte, ottimista, preferisce chiamare «cronoprogramma sino al 2023». Il ritardo del voto al Senato lo ha tenuto in forse fino all’ultimo. Per ora più che di ripartire Conte deve preoccuparsi di arrivare al sospirato nuovo start. Per farlo deve aggirare due macigni: la prescrizione e la legge sulle autonomie. Sulla prima la maggioranza è spaccata. Sulla seconda peggio, con l’M5S e Leu che considerano la legge quadro del ministro Boccia se non proprio peggiore dell’ipotesi leghista, neppure migliore.

Sulla vera posta in gioco della verifica, il bivio tra dar vita o meno all’alleanza strategica che Zingaretti ritiene condizione essenziale per andare avanti, Pd e M5S, almeno quello che risponde a Di Maio, la pensano in maniera opposta. Senza un’intesa su quel punto la maggioranza e il governo sono destinati a restare presto a corto d’ossigeno. Renzi irrompe a gamba tesa in questo panorama un po’ desolato. Il gioco di sponda con la Lega esaspererà le tensioni, provocherà divisioni ulteriori nel Pd. Quanto al che fare poi, si vedrà. Renzi non è tipo da preoccuparsi del dopodomani. Lo stesso «tavolo delle regole» in prospettiva non è escluso, anche se sul tema che lo stesso Renzi indica come quello eminente, la legge elettorale, i due hanno pareri opposti: il leghista per il maggioritario, l’ex premier per un proporzionale ma senza tentazioni spagnole, con una soglia di sbarramento anche alta, forse lo stesso 5% a cui punta il Pd.
Salvini ha deciso di scrollarsi di dosso l’immagine “eversiva” per rassicurare l’elettorato moderato, forse anche la Ue, e per aggirare una Giorgia Meloni sempre più competitiva. Ma è inevitabile chiedersi se non consideri anche conveniente rinunciare per ora a guidare il governo. In attesa di una fase meno proibitiva.