L’atmosfera è quella delle piccolissime occasioni: suspence al minimo storico, tensione inesistente. La decisione di fissare il dibattito sulle mozioni di sfiducia al Senato dopo il referendum ha avuto un doppio effetto. Ha evitato che lo scandalo di Potenza spingesse un numero maggiore di elettori verso le urne, ma l’esito del referendum, a sua volta, ha spompato in partenza le mozioni di sfiducia. La bocciatura delle due mozioni, ognuna delle quali votata da tutte le forze d’opposizione, è certa dall’inizio. Nemmeno la composizione della maggioranza concede un brivido. I verdiniani voteranno per il governo, anzi si definiscono gioiosamente «i pretoriani di Renzi», ma il loro voto non dovrebbe essere determinante, e anche se lo fosse non scandalizzerebbe più nessuno. Ingoiato e digerito dalla minoranza del Pd, come tutto il resto.

Solo che Matteo Renzi non ha alcuna intenzione di giocare la partita in souplesse. Al contrario si produce in un discorso politicamente pesantissimo, forse il più importante dopo quello d’esordio al senato, quando annunciò la riforma costituzionale. Il presidente del consiglio, forte del successo referendario, non si difende. Attacca. Non si giustifica. Rivendica. Non arretra. Ricorda senza mezzi termini ai senatori che contano pochissimo.

Sulla giustizia Renzi impugna il garantismo per annunciare che gli avvisi di garanzia, i rinvii a giudizio e persino le sentenze di primo e secondo grado non gli interessano: «L’Italia ha conosciuto giudici eroi, ma anche, per 25 anni, una barbarie di giustizialismo. L’avviso di garanzia è diventato una sentenza di condanna e non può esserlo. Noi non chiederemo le dimissioni dell’assessore dell’M5S di Livorno colpito da avviso di garanzia. Io sono per la giustizia, non per i giustizialisti. Credo nei tribunali, non nei tribuni. Se chiedo che i processi arrivino a sentenza è perché per sentenza si intende sentenza passata in giudicato».

In un paese che appunto da 25 anni è dominato dal conflitto tra il potere politico e quello togato è ovvio che i passaggi del discorso di Renzi che colpiscono di più siano quelli sulla magistratura. In realtà, però, il premier è anche più duro quando si rivolge al Parlamento. «Io rivendico ogni decisione del governo assunta per sbloccare le opere pubbliche e private. Se sbloccare le opere è una colpa addossateci pure questa colpa». In realtà era partito per dire altro, «Se è una colpa o un reato», poi però si corregge: «Se è un reato lo decideranno i tribunali». Quindi arriva il vero affondo: «Il governo ascolta tutti, ma poi fa. Perché questo significa avere la schiena dritta». E per ascoltare tutti, non s’intende solo le forze politiche, ma anche tutte le forze economiche e se qualcuno pensa che questo significhi piegarsi al lobbismo «vive nell’iperuranio».

La conclusione è da picchiatore politico. Il premier rinfaccia alle opposizioni di aver presentato le due mozioni solo per usarle come grancassa nei talk show o in rete «o perché vi piace perdere». Ma l’Italia reale non è quella dei talk o del web, «spero ve ne siate accorti con il referendum di domenica», e neppure quella di palazzo Madama e Montecitorio: «La vita è altrove, la politica anche. Quando vorrete vi aspetteremo là».

Nel merito del fattaccio Renzi non entra, se non per chiarire che l’emendamento Tempa Rossa era stato discusso, votato e persino sub-emendato. Tanti erano contrari, dentro e fuori dal Palazzo, il presidente della commissione ambiente della Camera lo aveva giudicato inammissibile. Poco male. Renzi ha la schiena dritta e decide lui.

Il discorso durissimo, poco commisurato all’occasione spenta, rivela quale sia stata la strategia adottata da palazzo Chigi nella sfida referendaria. Molti si sono chiesti perché il capo avesse personalizzato tanto la battaglia, col risultato di spingere verso le urne più elettori di quanti avrebbero votato senza il suo intervento a gamba tesa e di correre un rischio che poteva apparire gratuito. La risposta è arrivata ieri. Renzi ha fatto delle trivelle una battaglia personale, scontando anche un minore astensionismo, per potersi poi accreditare in pieno la vittoria e per poter fare un discorso come quello di ieri. Per poter chiarire al potere togato e al Parlamento chi comanda davvero.