Formalmente non dice la parola «dimissioni». Alla direzione Pd, convocata a Roma ieri in versione extralarge (ci sono anche i parlamentari e i segretari regionali) Matteo Renzi non esplicita la sua decisione. Ma è un trucco comunicativo: le «dimissioni» formali arriveranno sabato prossimo, il 18 febbraio, davanti all’assemblea nazionale. Ma dureranno poco: lì il segretario ha una maggioranza bulgara che potrebbe persino votare la sua «permanenza tecnica» a capo del partito anche durante il congresso; oppure affidare la reggenza al presidente Matteo Orfini. La sostanza non cambia. Tanto la giostra durerà poco: l’8 aprile, al massimo il 22 il Pd avrà come segretario un Renzi più Renzi di prima. In un pomeriggio il segretario dimostra di non aver cambiato pelle e di non essere entrato in confusione. Anzi infila una doppietta: si guadagna la certezza di essere rieletto e persino la possibilità di votare a giugno. Eventualità al momento esclusa, ma che di qui ai prossimi mesi potrebbe tornare all’ordine del giorno. E se non è giugno, sarà ottobre.

Infatti che Gentiloni debba «stare sereno», cioè poco sereno, lo si capisce anche dal trattamento riservato al ministro Padoan: che è stato invitato per un chiarimento sulla vicenda della risposta da dare alla Commissione europea. Ma il chiarimento non arriva. Anche il premier assiste muto alla liturgia di chi si prepara a mandarlo a casa. Magari con più cortesia di quella riservata a Enrico Letta, esattamente tre anni fa. Renzi giura il contrario: «Il congresso non è legato alle urne».

Ma la road map di Renzi è chiara: «Si chiude un ciclo alla guida del Pd». Il bilancio è sbrigativo: «Ho preso un Pd che aveva il 25 per cento e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al 40,8». È sbrigativo anche sul cambio di linea sul 41 per cento della sconfitta referendaria: «È evidente che non è tutto per noi. Spero sia evidente anche agli amici del No che il 59 è solo in minima parte ascrivibile a loro». Si toglie anche la soddisfazione di dire che propone il congresso anticipato «accettando l’invito della minoranza». Poi hanno cambiato idea, ma «a un certo punto un punto va messo. Non da me ma dall’assemblea. È l’assemblea che ha la sovranità per decidere i tempi del congresso, lo prevede lo statuto», chiude la discussione nella replica.

La minoranza non firma la sua condanna alla sconfitta. Il primo ad avvertire il segretario che la posta in gioco è la scissione è Pier Luigi Bersani: «Dobbiamo avere il tempo necessario per creare un clima congressuale». Con lui, con sfumature diverse, si schierano i candidati di minoranza Enrico Rossi, Michele Emiliano (che però fino a qualche giorno fa raccoglieva le firme per il congresso anticipato). E Roberto Speranza: «Evitare la scissione dipende dalla responsabilità di tutti, ma credo che la responsabilità più grande sia nelle tue mani». Renzi lo sa, ma francamente se ne infischia.

Anche il ministro Andrea Orlando prova a trovare una mediazione. Bacchetta Bersani per le sue quotidiane dichiarazioni «per delegittimare Renzi» e chiede di mettere «al bando la parola scissione». Non si lancia nella corsa per la segreteria – del resto l’accelerazione di Renzi nasce proprio per scongiurare il compattamento di un fronte contro di lui, di cui Orlando è il miglior interprete – ma muove critiche serissime all’impianto del Pd: lo statuto, dice, è figlio di un’altra fase e serve «solo alla legittimazione del leader». Propone una «conferenza programmatica», che è un classico del Pci quando voleva affrontare un momento di crisi senza precipitare in scelte divisive. Un congresso frettoloso «finirà per essere la sagra dell’antipolitica, il tutto nelle battute finali della campagna per le amministrative». Renzi gli replica freddamente: «Te lo dico con affetto: la conferenza programmatica è quella di quattro puntate fa. L’assemblea deve decidere che il congresso si faccia nei tempi previsti. Rispettiamo le regole».
Brivido finale al momento del voto delle mozioni: in quella della minoranza c’è l’esplicito sostegno al governo Gentiloni fino al 2018, una trappola apparecchiata da Davide Zoggia e Nico Stumpo per spaccare la maggioranza. Piero Fassino capisce la manovra: chi non la voterà sarà accusato di voler sfiduciare il premier in carica. Il presidente Matteo Orfini mette al voto prima quella della maggioranza, e finisce con 107 sì, 12 no e 5 astenuti, il testo della minoranza non viene messo al voto per «incompatibilità». Orlando non partecipa al voto e non nasconde i dubbi: «Mi hanno assicurato che non è un avviso di sfratto a Gentiloni, spero abbiano ragione, ma non ne sono del tutto convinto». Il ministro Franceschini fa buon viso all’esito della direzione. La minoranza bersaniana invece non ci sta. Speranza: «Se l’obiettivo è un congresso-lampo per poi andare a un voto-lampo, non c’è più il Pd». In queste ore deciderà se partecipare all’assemblea di sabato. La scissione è a un passo. Anche se pesa lo sfottò che Renzi fa già circolare fra i suoi: «Faranno una scissione sulla data del congresso?»