La prima impressione, sull’onda delle dichiarazioni e dei comunicati ufficiali della Commissione Ue, e di un’intervista del Corriere della Sera all’ex ministro Saccomanni, è che Matteo Renzi non stia granché simpatico ai sacerdoti dell’austerity di casa a Bruxelles. Poi però arrivano le critiche di Stefano Fassina, indirizzate equamente sia ad Olli Rehn che a Pier Carlo Padoan. E allora si fa strada una diversa ipotesi. Quella di un gioco delle tre carte, orchestrato per sancire ancora una volta l’inevitabilità di quelle “riforme strutturali” che, negli ultimi quarant’anni, non hanno mai portato nulla di buono alla grande maggioranza (meno abbiente, dati Bankitalia alla mano) degli italiani.

Le polemiche del giorno nascono delle esternazioni pubbliche degli ultimi due ministri dell’economia. L’attuale inquilino di via XX Settembre aveva ipotizzato giovedì al Sole 24 Ore che i miliardi necessari per dare gambe al piano renziano di riduzione del cuneo fiscale potevano arrivare anche dai fondi Ue per le politiche di coesione 2007-13 rimasti inutilizzati. Anche se in forma interrogativa, Pier Carlo Padoan era stato chiaro: “L’obiettivo è il rafforzamento strutturale delle economie. Quindi perché non si potrebbero utilizzare quelle risorse su due capitoli oggi prioritari per quel rafforzamento, il mercato del lavoro e la capacità di competere delle imprese? E’ interesse dell’Europa intera, non solo dell’Italia”.

Con un ritardo sospetto, vista la ferrea regolamentazione di una materia che peraltro Padoan dovrebbe conoscere bene, solo ieri mattina il commissario europeo agli affari regionali, Johannes Hahn, ha ribadito ciò che gli addetti ai lavori sanno da sempre: “Le risorse della politica di coesione devono essere utilizzate per finanziare nuovi progetti che hanno vocazione a contribuire allo sviluppo. Non possono essere usate per coprire riduzione di imposte, come quella di un potenziale taglio del cuneo fiscale, cioè la differenza fra le imposte sul lavoro e il costo del lavoro, come suggerito da alcuni”. A seguire l’elenco dei progetti leciti: aiuti per le start up, per l’espansione produttiva e occupazionale dell’industria manifatturiera, e per ridurre la dispersione scolastica.

Nel mentre l’ex ministro Fabrizio Saccomanni, accusato da Renzi di aver abbellito i conti pubblici, rispondeva a stretto giro di stampa. Prima criticando le consuete esternazioni di Olli Rehn di mercoledì sugli “squilibri macroeconomici eccessivi” che, secondo il commissario Ue, dovrebbero per l’ennesima volta sottoporre l’Italia a uno “speciale monitoraggio”. Poi, passando a Renzi: “La sua è una scorrettezza. Noi abbiamo sempre detto come stavano le cose. Magari l’obiettivo del 2014 di una crescita all’1,1%, sul quale mi sembrava di aver convinto la Commissione e Rehn, può essere giudicato insufficiente dall’attuale governo. Ma dire che si è nascosta la realtà è scorretto. E vorrei ricordare che nella riunione dell’Eurogruppo del 22 novembre scorso si era chiaramente arrivati alla conclusione che non ci sarebbe stato bisogno di alcuna manovra”.

Infine Saccomanni ha ricordato la linea. Unica: “Non esiste una possibilità su un milione che vengano cambiate le regole europee sui bilanci pubblici. Volendo rispettare il rigore dei conti, si può solo cercare di stabilire un profilo di rientro del debito pubblico più a lungo termine, attraverso un’agenda di riforme”. E qui casca l’asino, osserva Stefano Fassina. Che, da bravo studioso, si informa. E ne ha per tutti. A partire da Olli Rehn: “L’analisi della Commissione europea sugli squilibri macroeconomici è deprimente, sul piano intellettuale ancor prima che su quello economico”. A seguire si passa a Padoan: “Ho letto con preoccupazione anche la nota del Mef a commento dell’analisi dell’Ue, insieme alla prima intervista del ministro: viene ripetuto il mantra delle riforme strutturali come via della crescita. Ma non è così. Anzi, così il naufragio si avvicina. Perché occorrerebbe una radicale correzione di rotta, basata sulla domanda, nel prossimo programma di riforme nazionali”. Comunista!