La parabola di Matteo Renzi come personaggio «nuovo» della politica italiana si avvia tristemente, ma del tutto prevedibilmente, al suo epilogo. Ci si può chiedere cosa ha spinto milioni di italiani, espressione di una società civile che stenta a vivere, a investirlo di una missione salvifica. Una missione da sempre frutto di un autoinganno collettivo, una prospettiva che falsa la realtà, la rende lontana, inconoscibile.

Renzi ha interpretato il suo investimento come consenso genuino al suo progetto di svecchiamento, più declamato che veramente pensato. Ha cercato di sfruttarlo, senza capire la sua natura necessariamente strumentale, e ha finito per esserne usato.

È diventato un “segno dei tempi” in un mondo nel quale la ricerca della consolazione regna sovrana ed è rimasto impantanato nelle acque paludose in cui ha alloggiato. Non è riuscito a imprimere nessuna svolta sul piano dei problemi reali che aveva ereditato e di conseguenza ha consentito il loro aggravarsi.

Propostosi come argine al populismo si è comportato in modo tale da rinforzarlo e ora le forze democratiche ne sono assediate. La sua gestione del ius soli, la latitanza come modo di tirare avanti, è stata disastrosa. Dopo la frana di un referendum inutile, in cui il senato da abolire resuscitava come morto vivente, avrebbe salvato il suo futuro politico facendosi da parte, ma le regole dell’ingaggio collettivo di un prescelto sono psicologiche e esigono che egli faccia la sua parte di vittima designata fino in fondo. Chi conosce gli investimenti collettivi che deresponsabilizzano chi investe e la loro inconsapevole spietatezza nel macinare chi è investito, dovrebbe augurargli di ritrovare se stesso.
L’«establishment», che ha co-designato Renzi, procedendo parallelamente alla crescita del suo consenso popolare, non gli è stato di grande aiuto. Esso non ha un progetto se non quello di gestire l’esistente in attesa di tempi migliori. Questi tempi non verranno da soli perché il mondo è in balia di forze speculative slegate dal controllo democratico che seguono le regole dei bari.

Se ci si fidasse un po’ di quello che, pur indirettamente, comunica l’inconscio, sarebbe stato possibile vedere nell’ossimoro di un Telemaco rottamatore (capovolgimento del significato di Odissea), di cui Renzi si è fatto incarnazione, un suo tentativo di liberarsi di un investimento incongruo di cui sentiva il peso. Lo slogan della rottamazione ha avuto un impatto molto forte perché a quella comunicazione involontaria si prestasse attenzione.

Inutile aggrapparsi, nel cercare risposte, all’essere «antipatico» di Renzi. Non è stato lui a costruire il «renzismo». Ne fu, invece, creato. Il tema della rottamazione, pur non nominato, era già dominante nel discorso di Berlusconi, acclamato a destra e a manca come innovatore del linguaggio e dell’azione politica. Il «renzismo» ha dato espressione a un’infiltrazione del sentire del popolo della sinistra da parte della psicologia della destra. Con la grande differenza che mentre a destra la rottamazione della classe politica segue una strada di riciclaggio di modalità di agire apolitiche, che le assegnano dei vantaggi consoni al suo modo di essere, a sinistra la pretesa di un rinnovamento che, affidato al carisma di una persona, resta avulso da un processo di trasformazione, conduce solo a cocenti disillusioni e a divisioni dolorosissime.

La società civile, senza la quale la sinistra sparisce, non deve mai finire in una contrapposizione mortale alla società politica. Deve impegnarsi a trasformarla e se è necessario reinventarla. Il senso di responsabilità è per essa una questione identitaria.