Si può anche non essere d’accordo su tutto quel che dice Emanuele Macaluso nell’intervista apparsa sul manifesto (20 ottobre). Ma ce ne fossero molte in giro di teste altrettanto capaci di mettere in ordine con semplicità ragionamenti complessi, forse non saremmo messi così disastrosamente male. Nel paese e soprattutto a sinistra. Macaluso, si sa, è, come l’attuale presidente della Repubblica, uno della «destra» comunista e post-comunista. Uno di quelli che quando c’era il Pci deprecavano la divisione tra comunisti e socialisti.

E che si battevano per un’interpretazione coerentemente riformistica delle lotte politiche del movimento operaio. Ripeto: si poteva e si può dissentire dalla sua visione. E, nell’intervista, trovare qualche giudizio discutibile, come la sottovalutazione (a mio parere) della cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori da parte del governo. O come la difesa un po’ astratta (sempre a mio parere) del centralismo democratico, principio che conserva una ragion d’essere finché in un partito non c’è soltanto centralismo ma anche democrazia. Ciò che non pare proprio il caso del Pd di Renzi, guidato a suon di ricatti da un uomo solo al comando. Il che legittima anche qualche perplessità a proposito dell’idea che per fare politica si debba per forza stare nel Pd.

Non che Macaluso si inventi un problema. È vero che quel che c’è oggi a sinistra non è in grado di incidere sul terreno politico. Ma questo non dimostra che dentro il Pd vi sia spazio per una battaglia di sinistra né soprattutto che nulla di nuovo possa nascere e che non valga la pena di lavorare a tal fine. Resta che nella sostanza le considerazioni di Macaluso appaiono non soltanto interessanti, ma nell’essenziale assolutamente centrate e meritevoli di attenta riflessione.

Capita, è noto, che in un mondo che corre a destra i moderati seri e coerenti si ritrovino a sinistra, magari all’estrema. Beh, ci voleva Macaluso perché una figura di spicco vicina benché esterna la Pd – non importa se in pensione e senza incarichi – dicesse a chiare lettere che un partito non deve puntare a rappresentare tutto il popolo ma una parte, assumendosi di conseguenza le proprie responsabilità. E che le schifezze che il governo Renzi (come del resto i suoi predecessori) chiama «riforme», riforme non sono affatto. Poiché la questione non sta nel «cambiare verso» ma in quel che concretamente si combina, e cioè nel muoversi verso una maggiore uguaglianza. Siccome quanto il governo sta facendo va evidentemente nella direzione opposta, di riformismo nell’azione sua e del Pd non vi è traccia. C’è anzi l’esatto contrario: conservazione o piuttosto reazione.

In positivo, Macaluso dice due cose su cui sarebbe molto opportuno riflettere. In primo luogo è indiscutibile che oggi a sinistra del Pd c’è solo, nella migliore delle ipotesi, testimonianza. La frammentazione delle forze, quali che siano le cause, dà torto a tutti per la semplice ragione che «senza popolo» non c’è sinistra. Può esserci, in qualche misura, politica. Ma di destra, in un quadro di gestione autoritaria del consenso. La sinistra vive nella misura in cui conquista la fiducia innanzi tutto del mondo del lavoro (e del non-lavoro). Forze che non raggiungono questo obiettivo fuoriescono dallo spazio della politica. Può anche darsi, anche se è inverosimile, che ciò non sia di per sé colpa dei loro dirigenti. Ma lo diventa dal momento in cui essi non fanno di tutto per sovvertire questo stato di cose e per tornare a svolgere un ruolo nel conflitto politico.

La seconda cosa che Macaluso dice non è meno importante. Per rinascere, la sinistra deve avere un’idea di società, un progetto nuovo e organico per il paese, una prospettiva politico-culturale. Il che significa, mi pare, che deve innanzi tutto recuperare il coraggio della propria autonomia e l’orgoglio della propria storia. Insomma, fare l’esatto contrario di quello che da vent’anni accade. Tra futili nuovismi, scelte opportunistiche e osceni trasformismi.