Ci sono voluti tre mesi di promesse, slogan, tweet perché Matteo Renzi arrivasse finalmente a dire che il suo fantomatico JobsAct è rinviato a data da destinarsi. Perché ammettere che la tanto urgente riforma degli ammortizzatori sociali sarà contenuta in un disegno di legge delega e in un successivo decreto delegato del governo è come fare un tuffo nel vuoto. Ci vorranno anni, probabilmente. Ammesso e non concesso che ci si riuscirà. Eppure il 17 dicembre scorso, da neo-segretario Pd, Renzi aveva assicurato che entro Natale avrebbe messo a punto il piano per «dare una tutela a chi non ce l’ha». Era l’annuncio di un sussidio universale per combattere immediatamente l’esclusione sociale di milioni di disoccupati e inoccupati, che dentro la Grande Crisi non hanno un presente dignitoso, figurarsi un futuro da immaginare. Sembrava la presa di coscienza del default sociale di questo Paese. Soprattutto la consapevolezza di voler ripartire da «chi è rimasto indietro».

Arrivato al governo, niente di tutto questo. Prima l’avvitamento sulla legge elettorale. Ora la sterzata sugli 82 euro al mese a chi ne guadagna meno di 1500 mensili. Con la scusa di tutelare anche il ceto medio. Facendo finta di non sapere che il ceto medio italiano è sfiancato da cinque anni di crisi e da 15 di stagnazione. E certo, meglio 82 euro, che niente. Ma a chi il lavoro già ce l’ha, seppure mal pagato. Soprattutto non considerando che spesso il ceto medio è precipitato in una condizione di neo-proletariato, con persone over-40 e over-50 che hanno perso il lavoro e sono oramai «fuori mercato». E con figli che in quel mercato del lavoro non sono riusciti ad entrare.
Sembra anche poco lusinghiero che Renzi rivendichi lo strumento della «Protezione giovani» per gli under-29 come misura ideata da questo governo. È un intervento previsto dall’Unione europea e programmato dal precedente governo, con il ministro Enrico Giovannini.

L’invito a «dare una mano a chi non ce la fa più», è stato ripetuto più volte da Renzi. Una sorta di mantra buono a giustificare le sue misure. Ma è proprio questo il problema. Come fa il presidente del consiglio a non capire che queste legittime misure di sostegno del lavoro subordinato producono la sensazione di scavare un ulteriore fossato tra chi il lavoro ce l’ha e chi da anni è fuori da qualsiasi attività remunerata? Oppure svolge attività lavorative impoverite, fuori dalla subordinazione, come i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata dell’Inps con un fisco e una previdenza implacabili, ma senza un minimo di garanzie di base? È questo diffuso senso di ingiustizia sociale che Renzi avrebbe dovuto combattere, prima di tutto. Partendo da chi davvero «non ce la fa più». E ancora aspetta misure di tutela che neanche questo governo sembra intenzionato a introdurre.

Ma è un po’ tutto il tenore della conferenza stampa di ieri a risultare indigesto, lacunoso e vagamente sgangherato. Lo stesso Renzi ha richiamato consapevolmente lo stile della televendita, con il piglio del maestrino davanti a studenti svogliati e indisciplinati. Non ha aiutato il ricorso alle onnipresenti slide colorate. Sullo schermo, e dal vivo, ha dato la sensazione di impartire un corso di formazione a distanza di quarta categoria. C’è qualcosa di ossessivo nel continuo rivendicare la bruciante tempistica con la quale il governo porterà avanti le riforme. Ieri ha dato l’idea che Renzi volesse convincere prima di tutto se stesso sulla efficacia di queste misure. Ancora nessuna approvata, sia chiaro. Anche questa (s)volta, non è quella buona.