mincia di buon mattino, alle 8, quando Carlo Calenda twitta: «Non bisogna fare un altro partito ma lavorare per risollevare quello che c’è. Domani mi vado ad iscrivere al Pd». Il ministro, che ha votato per Emma Bonino e si dichiara liberaldemocratico e pro centrosinistra, è uomo di battute e ambizioni. Ma ha un buon senso del tempo. Da sempre è considerato, nel vago cicaleccio mediatico, un antagonista di Renzi nell’aspirazione al ruolo del Macron «de noialtri».

E COSÌ, IN UN PD A CACCIA di un nuovo segretario, e con un segretario dimissionario che però non si vuole levare di mezzo, le dichiarazioni di benvenuto a Calenda diventano l’occasione per fare l’elenco di quelli che chiedono lo sfratto esecutivo contro Renzi. Il primo a rispondere «Grazie Carlo» è nientemeno che il premier Gentiloni, seguono il vicesegretario Martina, Richetti, Finocchiaro, Fassino, Orlando, Claudio De Vincenti. L’elenco è lunghissimo, segno che al Nazareno stanno arrivando le idi di marzo. Sui social, poi, è un tripudio di naviganti dem entusiasti per l’intervento del ministro nell’azienda in crisi Partito democratico. Al punto che in serata Calenda stesso deve smentire ogni ambizione: «Non conosco il partito, le persone che ci lavorano, la rete territoriale etc. Candidarsi a qualcosa sarebbe davvero poco serio».

MA LA VICENDA di Calenda è un diversivo estemporaneo. Al Nazareno il gioco si fa duro, si preparano trincee e sacchetti di sabbia. Le critiche al Colle e a Gentiloni di Renzi («abbiamo sbagliato a non andare al voto nel 2017») hanno reso inquieti i criticati. In più dalla stretta cerchia renziana viene fatto circolare il sospetto che, rispondendo a una intenzione del Colle, siano in molti i dirigenti dem ad essere pronti a una trattativa per far nascere un governo a 5 stelle. «Tutti quelli che ambiscono a una presidenza, chi di una camera chi della Repubblica, a suo tempo», si spiega. L’allusione è all’eterno «Iago» Dario Franceschini. Ma anche a Romano Prodi e persino a Walter Veltroni. Anche alla minoranza di Orlando vengono attribuite intenzioni trattativiste e poltroniste. Franceschini smentisce: «Non ho mai pensato sia possibile un governo con M5s e tantomeno con la destra». Altrettanto fa Orlando: «È una leggenda in parte alimentata anche dall’interno del Pd, ma il Pd è stato sconfitto, ha perso le elezioni e sarà all’opposizione».

MA SE LA MORAL SUASION del presidente Mattarella, che non vorrebbe un Pd «attestato su un no preventivo», si facesse più pressante? Anche perché solo una disponibilità del Pd potrebbe evitare un governo a guida del ’fascioleghista’ Matteo Salvini.

La risposta indiretta di Renzi arriva su facebook: «Facciano loro il governo se ci riescono, noi stiamo fuori. Per me il Pd deve stare dove l’hanno messo i cittadini: all’opposizione. Se qualcuno del nostro partito la pensa diversamente, lo dica in direzione o nei gruppi parlamentari».

LA SFIDA SARÀ TRADOTTA in un ordine del giorno da presentare al voto della direzione di lunedì. Il testo impegnerà il partito a stare all’opposizione senza subordinate. Così formulato, nessuno potrebbe non votarlo. Tranne Renzi: ieri ha fatto trapelare l’intenzione di prendersi qualche giorno di vacanza: «Vado a sciare» ha detto al giornalista Massimo Giannini (poi ha smentito). Potrebbe non essere presente alla direzione, ultimo sgarbo al suo partito, a dispetto di chi lo ha sospettato di aver rassegnato dimissioni finte (lui testualmente ha detto che sarebbero diventate operative solo «al termine della fase di insediamento del parlamento e del nuovo governo»). E chi gli ha attribuito l’intenzione di voler restare a manovrare l’elezione dei capigruppo. E anche quella di un suo protetto al prossimo congresso.

PER QUESTO il fronte del caminetto in queste ore prova a imporre la «gestione collegiale» della transizione del partito all’era Post Renzi, ammesso che davvero inizi. Per la gioia di Bersani che ieri ha mandato un segnale agli ammutinati del Nazareno: «Se nel mondo progressista si smette finalmente di negare il problema, una sinistra plurale potrà riprendere il suo cammino». I big hanno individuato in Martina il «traghettatore». Ma per il segretario e per i pochi fedelissimi rimasti al Nazareno, è fumo negli occhi: «No caminetti», ha detto tre volte lunedì in conferenza stampa, parlando più ai suoi che ai cronisti.

DEL RESTO AL NAZARENO spiegano che «il traghettatore non esiste nel nostro statuto. Con nil vicesegretario Martina e il presidente Orfini la funzionalità del partito è garantita. Poi a metà aprile l’assemblea nazionale deciderà se eleggere un un segretario modello Epifani», che fu eletto senza congresso nel 2013 dopo le dimissioni di Bersani, «o se avviare subito il percorso congressuale, e anche in questo caso il presidente assumerà le funzioni che gli sono assegnate dallo statuto.