Sono poche righette con 17 firme di senatori del Pd in calce e un nome lasciato cadere in mezzo al comunicato: quello di Matteo Renzi. Lo stringato testo è mirabile perché contiene più indicazioni politiche, e più precise, di tutti i discorsi pronunciati dal palco della conferenza programmatica del Pd dello scorso week-end. I 17, tutti catto-dem, danno piena ragione ad Angelino Alfano e ai centristi, nonché al centrodestra. Reclamano il rinnovo del bonus bebè. Lo fanno con toni ruvidi e ultimativi. Citano a sostegno l’ispiratore principale della nuova mossa anti-governativa del Pd: il segretario.

La «scelta di non rifinanziare il bonus bebè», così come la non accettazione di altre proposte, prima tra tutte l’innalzamento della soglia di reddito perché un figlio sia considerato a carico, «appare incomprensibile e non condivisibile». Segue annuncio di emendamenti «per rendere la manovra di bilancio coerente con le indicazioni di Matteo Renzi».

Il comunicato arriva meno di 24 ore dopo il no del governo alla stessa richiesta, avanzata da Alfano e ribadita ieri dai centristi. Il messaggio è dunque duplice. Prima di tutto conferma la linea di scontro con il governo che Renzi ha inaugurato fragorosamente con la mozione contro Visco. Sono arrivate poi la bocciatura secca della linea inizialmente tenuta dalla ministra Fedeli sull’uscita da scuola dei minori di 14 anni, la diserzione dei renziani dal cdm che ha formalizzato la nomina di Visco, il veto del Pd all’inserimento nella legge di bilancio della norma, fortemente voluta dal ministro Padoan, che avrebbe facilitato per le banche la riscossione dei crediti in default. Un fronte, quest’ultimo, che ha visto di nuovo la sottosegretaria Boschi, longa manus di Renzi sul fronte bancario, arrivare a un confronto diretto con il ministro dell’Economia.

La sfida dei 17 senatori, non solo per il contenuto ma forse anche più per i toni aggressivi e quasi più propri di un partito d’opposizione, conferma che quella del segretario è una scelta strategica. Dettata certamente dalla convinzione, ribadita da Renzi più volte nelle ultime settimane, che solo un ritorno alla grinta rottamatrice possa rivelarsi elettoralmente vincente. Ma forse anche dall’intenzione di infliggere in anticipo qualche mazzata alla popolarità di Gentiloni che al momento supera di ben 12 punti, 39% contro 27 nella classifica dei leader più affidabili, quella del segretario. Quando sarà il momento di far partire la lotteria di palazzo Chigi, Renzi sa perfettamente di avere all’interno del partito un solo rivale. Che miri ad azzopparlo è tutto tranne che incredibile.

La mossa dei 17 senatori, che appare direttamente ispirata dal segretario, ha però anche un altro significato. Quest’anno il tradizionale “assalto alla diligenza” ha caratteri soprattutto propagandistici ed elettorali. I partiti devono strappare conquiste da sbandierare di fronte alle rispettive basi elettorali potenziali, e nessuno ne ha bisogno più dei centristi, che si preparano a una coalizione con il Pd e che devono dimostrare di poter condizionare le scelte del partito di gran lunga maggiore e di non essere solo portatori d’acqua. In un Senato dove il governo è senza maggioranza e dove dunque la trattativa è destinata a essere dura e quotidiana, Renzi lancia un segnale preciso, del resto già inviato nel discorso conclusivo nella conferenza di Napoli: prima di tutto bisogna pensare al centro. Tanto più che proprio il centro potrebbe dover subire una doppia bastonata prima della fine della legislatura: con la legge sui vitalizi, che il leader del Pd ha ordinato di portare fino all’approvazione prima delle elezioni, e forse anche con lo Ius Soli.

Senza contare la molla principale: non si possono affrontare le urne con un elettorato incarognito per il portafogli vuoto. Il ricavo del bonus ritirato rischia di essere pagato in voti sonanti, proprio come l’aumento «indicizzato» dell’età pensionabile. Per la seconda grana, Renzi ha già pronta una soluzione nel suo stile: un rinvio di 6 mesi, già proposto dal Pd. Il colpo arriverà, ma a elezioni consumate. Per il bonus della discordia, invece, l’unica è che il governo si arrenda.