La ripresa appena cominciata, e propagandata dal premier a colpi di tweet, è già finita e le cifre parlano di disoccupazione in crescita, di cali degli ordinativi delle industrie, di persistenti segnali di recessione. È uno stile di governo sub specie comunicazione che frana dinanzi alla realtà che non cede agli imperativi sterili del marketing spacciati per decisionismo.
I teorici liberali dipingevano la democrazia come il governo della pubblicità. E Renzi sembra prendere alla lettera i classici del pensiero politico. Si presenta alla Luiss con il marchio della Coca Cola ben in vista mentre, per dare spolvero al suo piglio autoritativo, ordina la proibizione dei Promessi sposi dalle scuole.
Spesso, in conferenze stampa convocate in sedi istituzionali, mette in bella mostra la celebre mela di una nota casa di personal computer. Il capo di governo che, fischiettando o canticchiando, si esibisce in compagnia di un prodotto commerciale, è il compimento, in forma ruspante, della privatizzazione della politica. Non è la politica ad avvalersi delle tecnologie del marketing. È il marketing a invadere anche il territorio della politica. Ma senza tangibili risultati nella crescita economica.

Presentando la proposta più avvelenata del suo governo, l’Italicum, Renzi indossa i panni del simpatico presentatore capace, con dei semplici accostamenti a trasmissioni pop del momento, di nascondere la matrice autoritaria dei suoi disegni di riforma. «Chi guarda Masterchef sa che quando arriva la mistery box non sai cosa c’è dentro. La mistery box è quello che accade col Porcellum. Non sai chi c’è. Con l’Italicum 1.0 affermiamo il principio che va ridotto il potere dei partiti e puoi indicare una lista di sei nomi accanto al simbolo». Il premier non scomoda il pensiero, inutile complicazione per la sua democrazia decidente, che sogna omologazione e conformismo, ma ricorre a innocenti metafore televisive per vendere, con le abilità immaginifiche di un piazzista, un prodotto istituzionale avariato.
La lotta continua di Renzi contro i detriti di realtà, procede attraverso numeri fantasiosi. Con l’avallo dei media, che trasformano in solido accadimento ogni suo tweet, egli conduce in una dimensione alterata, dove il mondo è capovolto e l’illusione domina sulle tendenze di un presente difficile. Con la fuga dalle cose spiacevoli, il sociale è trasfigurato in favola e chi rammenta spinosi problemi quotidiani è un inguaribile gufo che nega l’evidenza di una crescita a doppia cifra, con ripartenze mitiche.

I media unificati gonfiano gli annunci del poco candido governo dell’ottimismo e festeggiano una nuova età dell’oro con la vittoria definitiva sulla crisi, con il trionfo sulla precarietà e la realizzazione del sogno della piena occupazione. Con l’arte della mistificazione propria del governo simulatore del fare, Renzi poggia nella sua comunicazione su un dato sensibile-antropologico già segnalato da Machiavelli: la discrepanza tra occhio e mano. In politica e nell’agire sociale si incontra la rilevanza del sembrare quale movente di azioni collettive. Machiavelli avverte che gli uomini «iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere ad ognuno, a sentire a pochi; ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se» (Principe, capitolo XVIII). Il sembrare e l’occhio spingono a credere a delle finzioni, e sono in tanti a lasciarsi sedurre da narrazioni, annunci, apparenze.
Il potere ha la potenza per imporre parvenze, immagini e ha anche gli strumenti per condannare chi dissente, denunciando disagi sociali effettivi, come uno spregevole soprammobile del talk show. Le parole di chi sente con mano le sofferenze sono relegate nel regno delle chiacchiere mentre i ritrovati commerciali dei costruttori di apparenze diventano il solo attestato di veridicità agli occhi del pubblico pigro. Senza un’azione di lotta, il reale è alterato da confezioni fiabesche che raccontano realizzazioni fantastiche. La finzione venduta a reti unificate, costringe gli occhi distratti a credere alla veridicità delle apparenze.
Il solo nemico di Renzi è il reale che perciò va edulcorato, sopito, trasfigurato. Per questo la sua condotta di governo diventa una lotta contro il tempo. Malgrado la seduzione affidata a degli scenari fantastici, il reale continua ad esistere e opera sotto traccia come un possibile momento esterno di decodifica. Così, al cospetto della narrazione trionfalistica, ciascuno tocca con mano che la disoccupazione cresce, che le città sono distrutte, che il servizio sanitario salta, che la scuola è un deserto, che il sud muore, che la precarietà domina, che nulla cambia nei progetti di vita.

La rivincita delle «mani» ci sarà, ma il tempo del ripristino del principio dell’esperienza in masse disincantate, che tendono ad «amare più l’ombra che il sole», è lungo. Il governo della pubblicità fabbrica continue deviazioni semantiche nella speranza di resistere al potere perché le moltitudini «molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono» (Discorsi, libro I, capitolo XXV).
Nel tempo lungo, il reale si ridesterà, ma è illusorio stringere patti con il vincitore per la distribuzione delle spoglie, da godere in attesa dello schianto. Occorre che, oltre al sentire ciò che da vicino tocca ogni soggetto, ci sia una lotta per il rischiaramento delle condizioni sociali effettive.
Il principio di realtà (che permette di giudicare in base «alle mani») è una costruzione politica, non si presenta nella sua spontanea presa. Il sentire, cioè cogliere il senso di ciò che accade, tocca a pochi e complesso si rivela il gioco delle opinioni, delle credenze, delle persuasioni, delle esperienze, degli accidenti esterni, delle percezioni alterate del reale. A questo serve una coalizione sociale.