«La magistratura faccia il suo corso, noi abbiamo molta fiducia verso i magistrati e al tempo stesso De Luca ha la titolarità, il diritto e il dovere di governare. Siamo assolutamente certi che il mandato sia pieno e quindi De Luca lavori se capace». Le parole del presidente del consiglio dedicate al caso De Luca, durante la conferenza stampa sulle decisioni dei ministri e sul decreto Giubileo, continuano a essere poche, pochissime. In quelle poche frasi però, si potrebbe riconoscere un’assonanza con quelle che Renzi pronunciò nel giugno scorso a proposito del sindaco di Roma Marino: «Governi, se è in grado, se no a casa». Era già una sentenza di morte (politica, s’intende).

Ma il parallelo finisce qui. Per il presidente del consiglio Vicienzo non è Ignazio. Per lui De Luca non era un impresentabile, con buona pace della lista della commissione antimafia (contro la quale furono infatti i renziani a fare fuoco). Così come è un intoccabile: la fiducia nella magistratura è giusto una formula di rito. «Io sono sempre pronto a farmi carico di discussioni politiche, ma non di discussioni autoreferenziali tra addetti ai lavori», dice ancora il premier, pattinando fra un’argomentazione e l’altra. «Se ci saranno atti giudiziari ne prenderemo atto, ma fino a quel momento piena, totale incondizionata fiducia a magistratura e volontà di fare le cose». La dimostrazione è che nel paniere di palazzo Chigi c’è un provvedimento indirizzato proprio al governatore nella bufera: 150 milioni per la bonifica della Terra dei Fuochi e 50 per Bagnoli. Renzi lo annuncia e gli vota platealmente la fiducia del governo: «De Luca ha delle grandi sfide davanti a sé. Se c’è una persona che può fare della Terra dei Fuochi una grande sfida quello è proprio De Luca».

Ma il caso Campania, sul quale Renzi non si sbilancia né da premier né da segretario del partito, è un bubbone dalla nascita, e dalla nascita era destinato a scoppiare. La minoranza prepara l’artiglieria. Sorvolando sul fatto di aver a lungo beneficiato dell’asso De Luca, almeno finché all’ultimo congresso, quello del 2013, l’allora sindaco di Salerno non ha rivolto la sua preferenza (sarebbe il caso di dire: la sua valanga di preferenze) all’astro nascente di Matteo Renzi. Era successo dopo un lungo contenzioso con Enrico Letta, che aveva inutilmente cercato di farlo dimettere dal governo – era sottosegretario alle Infrastrutture – alzando alla fine bandiera bianca, e riducendosi a non dargli alcuna delega.

Grazie a De Luca al congresso cittadino Renzi aveva preso il 97,3 per cento degli oltre 12mila voti. Il risultato ai limiti della realtà era persino finito in procura: il giovane responsabile della mozione Cuperlo (che evidentemente nella zona non era riuscito neanche a toccare palla) era stato convocato dal magistrato antimafia dopo aver rilasciato una serie di dichiarazioni su presunti brogli ai gazebo. Nel corso di perquisizioni per un’indagine in corso all’epoca, in un capannone della zona erano stati trovati pacchi di tessere del Pd anno 2012. Il magistrato si era incuriosito della coincidenza. La cosa finì lì. Fatto sta che se nel 2013 il plebiscito per Renzi era stato esagerato, al congresso precedente, nel 2009, anche a Bersani De Luca non aveva portato la sua acqua. Un mare, un oceano: l’82,66 per cento dei voti.

Oggi Bersani stende un velo su questa lunga storia e se la prende con Renzi: «Il quadro giudiziario ce l’ha la magistratura, il quadro politico ce l’ha o meglio spero lo abbia il Nazareno e Palazzo Chigi. Facciano tutte e due per il meglio. C’è stato comunque un errore iniziale molto grande: o cambi la Severino o cambi il codice etico del Pd», attacca. Gli fa eco il presidente della commissione bilancio della Camera Francesco Boccia: «De Luca non andava candidato allora. Fatta quella scelta infausta, ed è stato un errore del Pd, ti gestisci le conseguenze. E queste sono solo le conseguenze di una scelta sbagliata».

Nel gelo imbarazzato del Partito democratico, che dopo il caso Roma e le inchieste di Mafia Capitale ora rischia di nuovo l’osso del collo in Campania, qualche voce critica si fa sentire. Come quella del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha ammesso al Corriere della sera che in Campania avrebbe «sostenuto un altro candidato, ma De Luca ha vinto le primarie». Altre bocche dem restano cucite, però. E se ne capisce il delicato motivo. De Luca è legato a doppio filo (politico) con Denis Verdini, il nuovo ago della bilancia della maggioranza del senato della Repubblica. I suoi uomini siedono nel consiglio regionale campano sotto le insegne della lista «Campania in rete». Le due maggioranze si tengono sugli stessi amici verdiniani: se cadesse una, anche l’altra sarebbe a rischio.