Renzi, poi Di Maio adesso Salvini, tre leader cresciuti a pane, televisione e social come mai prima (Berlusconi appartiene ad un’altra epoca mediale). Tutte e tre costruiscono il successo grazie ai new media, veloci e ultrarapidi. Renzi nel periodo 2012/2014 domina nel gradimento, onnipresente sui media e in testa ai sondaggi, infine assoluto vincitore delle europee. Poi il consenso declina, inversamente alla sua ingordigia mediatica.

Di Maio smentisce la vecchia sobrietà antitelevisiva del Movimento con infinite presenze televisive che, grazie alla narrazione in negativo sul paese e agli errori dei governi Pd, gli regalano la vittoria del 4 marzo. Però dopo qualche mese va in affanno, fino a quando non gli precipita addosso un autentico disastro elettorale. Paragonabile forse a quello di Renzi un anno prima e potenzialmente in grado, come quello, di segnare se non una fine politica, una uscita di scena.

Salvini divora i media in un’ascesa che diventa travolgente da giugno 2018 fini all’apoteosi del 26 maggio: grazie agli errori degli altri e alle risorse che mobilita (formidabile l’accoppiata paura-sicurezza). Però, anche l’ascesa del capo della Lega è, fatte le debite differenze, a rischio di ammalarsi presto (quanto presto dipenderà anche dagli avversari) di quella stessa malattia che mina le leadership moderne: la volatilità, consustanziale ai media imperniati su velocità e presentismo, acerrimi nemici della durata. Dai dati Agcom, Di Maio, il grande sconfitto, è stato il politico più presente in video nell’ultimo mese sui tg e talk di (quasi) tutte le reti, a volte con tempi di parola molto più alti di Salvini; grazie anche al caso Siri che ha tenuto lungamente banco. Ma i risultati non sono stati proporzionali all’esposizione. Anzi tutt’altro. A noi ricorda qualcuno.