I desideri, o forse i sogni, sono gli stessi: «un’Europa più unita e più forte, capace di dare risposte». Anche il nemico, o forse l’incubo, è il medesimo: «il populismo». Le strade per raggiungere quel traguardo, che a declamarlo non ci vuole niente, retorica purissima, ma agguantarlo è un’altra storia, invece non sono affatto le stesse, e neppure sulla barriera contro quella temuta onda che invece di rifluire monta ovunque il premier italiano e la cancelliera tedesca sembra concordino granché. Ma la politica, specialmente quella internazionale ed europea, è fatta spesso di gesti più che di sostanza, la risataccia della medesima Angela e di Sarkozy ai danni del Cavaliere contò più di cento dichiarazioni, e la stessa cosa, in direzione se non opposta certo diversa, vale oggi per la tedesca e il fiorentino.

Matteo Renzi torna a casa senza una sola preda nel carniere. Stallo sulla Turchia: la Germania, come l’Europa, batte cassa, l’Italia è pronta a cacciare la sua quota, ma solo un attimo dopo aver avuto la certezza che non entrerà nel computo della legge di stabilità. Sulla flessibilità, idem. L’Italia, si sa, ha usato nei conti presentati a Bruxelles una notevole destrezza. Potendo usufruire di uno sconto, se lo è applicato contandolo su tre voci diverse, e così facendo lo ha moltiplicato per tre.

A Bruxelles si sa che digrignano i denti, e nell’incontro di ieri, almeno a prima vista, non pare che sia stato fatto neppure un passettino avanti in direzione del riavvicinamento. Del terzo capitolo incandescente, la disfida dei gasdotti, di certo si è parlato a porte chiuse ma non in conferenza stampa. Segno che anche da quel punto di vista l’«Europa più unita e più forte» e addirittura «capace di dare qualche risposta», a essere generosi segna il passo.

E tuttavia, su quel piano impalpabile ma decisivo che è il sale della diplomazia europea, Matteo Renzi non rientra sconfitto in patria. Anzi. Ha sfidato il presidente della Commissione quasi alla vigilia del summit. Ha girato il coltello nella piaga portandosi all’incontro Carlo Calenda, il nuovo rappresentante italiano a Bruxelles, gradito alla Commissione europea come un’epidemia. Si è tolto lo sfizio di lanciare in conferenza stampa una frecciata dopo l’altra ai danni di Juncker, senza che la potentissima battesse ciglio. I soldi per la Turchia non arrivano? Colpa della Commissione che non si decide a garantire lo scomputo: «Sono molto impegnati. Però il tempo di fare conferenze stampa con i giornalisti lo trovano sempre. Lo troveranno anche per questo».

Il pennarello rosso col quale i commissari spulciano il bilancio tricolore? «Chiediamo solo che si dia seguito all’accordo politico che ha portato all’elezione di Juncker. Io non ho cambiato idea. Spero che non la abbia cambiata nemmeno lui».

La cancelliera insiste sul fronte dei fondi alla Turchia, anche perché per lei è questione di vita o di morte politica. Ma non spende un’occhiata o un sospiro in difesa del presidente Juncker:

«Non mi immischio. Spetta alla Commissione interpretare gli accordi sulla flessibilità, non a noi». Poi, quando Renzi squaderna sul tavolo le riforme chieste dall’Europa e dal suo governo imposte, in tutta evidenza per passare all’incasso, la cancelliera si allarga in complimenti e festosi riconoscimenti. Meno democrazia, meno diritti per i lavoratori. Evviva. In concreto, le parole della Merkel non cambiano di una virgola la situazione. Se lo scontro ci sarà (e probabilmente ci sarà), l’Italia dovrà affrontarlo con la Commissione. La Germania non aggiungerà ufficialmente il suo pesante carico, però nemmeno tenderà una mano all’inquilino di palazzo Chigi.

Ma nel gioco dei posizionamenti formali, il capo del governo italiano segna un passo avanti nel cammino che ha imboccato pochi mesi dopo l’ingresso a palazzo Chigi, quando si è reso conto che l’idea di un fronte mediterraneo da contrapporre a quello nordico era un miraggio, dal momento che Hollande non aveva alcuna intenzione di muoversi su quel terreno. Da allora Renzi sgomita di brutto per farsi largo sulla tolda di comando, quella dove Germania e Francia sono abituate a ritenersi occupanti uniche. Qualche centimetro in quella direzione nelle ultime settimane, e anche ieri a Berlino, lo ha fatto.
È una partita che Renzi stava già giocando, ma la posta in gioco è ormai cambiata. Ora non si tratta più solo di farsi spazio tra tedeschi e francesi, ma di adeguarsi a quell’«Europa a due velocità» che diventa ipotesi di giorno in giorno più concreta. L’Italia, come ha dichiarato ieri il ministro Gentiloni, è pronta «a discuterne», cioè ad accettarla. Purché «si riparta da sei Paesi fondatori», i cui ministri degli Esteri si incontreranno presto a Roma. Cioè purché sia chiaro che nell’Europa del dopo Schengen, l’Italia starà nel gruppo di testa.