«Non ci impicchiamo a una data», dice adesso Renzi e ripetono ministri e maggiorenti Pd. Gli stessi che avevano spiegato quanto fosse vitale approvare la riforma del bicameralismo in prima lettura al senato entro il 25 maggio. Ma mentre lo dice, il presidente del Consiglio già fissa un’altra scadenza: il 10 giugno. Vuole impiccarsi? Il collo lo offre: «Se non vogliono la riforma si cerchino un altro», ripete. Altro mezzo non trova per fare pressione sui senatori. Consapevole del rischio, reitera l’ultimatum. Ma questo è anche meno comprensibile del primo, che almeno legava la riforma alle esigenze della campagna elettorale.

«Se non fosse Renzi e non ci fosse questa luna di miele con la stampa – dice Pippo Civati, nel foyer del teatro Eliseo di Roma dov’è in corso una assai partecipata manifestazione dell’Anpi contro la proposta di riforma costituzionale del governo – si parlerebbe da giorni di quanto vistosamente sta indietreggiando. Era partito dal senato dei sindaci, poi ha accettato la parità con i consiglieri regionali, adesso riduce ancora la presenza, peraltro incomprensibile, dei primi cittadini. E deve proporre un compromesso sui criteri di nomina dei senatori».

Civati è uno dei due esponenti delle, diverse, minoranze Pd che hanno accolto l’invito dell’Associazione partigiani. All’Eliseo c’è anche Stefano Fassina. Nessuno dei due interviene dal palco, riservato al presidente Smuraglia e ai costituzionalisti Ferrara e Rodotà. Ma entrambi twittano, Fassina per invitare alla «riflessione sulla questione democratica affrontata dall’Anpi». Civati riprende uno spunto di Rodotà, che racconta di come nel clima di oggi anche Piero Calamandrei finirebbe irriso tra i «professoroni».

Che Renzi sia in difficoltà lo dimostra anche la conclusione dell’assemblea mattiniera con i senatori Pd. È la terza (sulle riforme) alla quale il leader è costretto. Non è mai riuscito a convincere tutti. Ieri ha messo sul piatto tutte le modifiche al testo del governo che aveva messo in conto di concedere, dall’inizio. I 21 senatori di nomina quirinalizia diminuiti a cinque. Il rispetto della proporzione tra popolazione e rappresentanti delle regioni. L’aumento delle competenze del nuovo senato, allargate alle leggi sulle libertà e i diritti civili. La diminuzione del numero dei sindaci-senatori. Ma sul punto più delicato, quello sul quale dal primo momento è apparso chiaro che è in minoranza nel senato, e cioè la non elettività dei senatori, Renzi ha potuto solo aggiungere confusione a confusione.

Non ha insistito con la sua proposta della doppia elezione, consiglieri regionali che eleggono consiglieri regionali e sindaci che eleggono sindaci. Ma non ha aperto del tutto all’elezione diretta, ha invece lanciato una proposta assai originale: «Lasciamo che ogni regione decida per suo conto come scegliere i consiglieri regionali da mandare in senato». I professori – oni e ini – di diritto costituzionale che arrivano alla manifestazione dell’Anpi se lo fanno ripetere due volte. «Ha detto proprio così?». L’ha detto, ma è possibile che non intenda proporre sul serio un sistema per istituzionalizzare il caos. Che del resto non convince nessuno di quelli che insistono sull’elezione diretta. Dunque i senatori del Pd che parlano di «passo avanti» possono solo riferirsi all’atmosfera della riunione col premier, al fatto che non li ha strapazzati troppo. In concreto la proposta di Renzi serve solo a prendere tempo.

E tempo ce n’è, perché sempre ieri il senato ha deciso di sospendere i lavori della commissione fino a martedì prossimo, una volta che – probabilmente oggi – terminerà la discussione generale. I relatori Finocchiaro e Calderoli hanno bisogno di qualche giorno in più per venire a capo del pasticcio: non screditare troppo il governo e dunque conservare il più possibile del disegno di legge Renzi-Boschi eppure registrare le opinioni della maggioranza dei senatori e i passi indietro dell’esecutivo. E dunque riscriverlo nella sostanza. Sul criterio di elezione dei nuovi senatori la soluzione è dietro l’angolo, contenuta in diversi progetti di legge: elezione diretta in contemporanea alle elezioni regionali. Eventualmente con una quota di delegati fissi dei consigli o delle giunte (il presidente). Ma Renzi non è ancora pronto ad accettarla. Potrebbe cambiare idea quando si renderà conto che anche il 10 giugno non è poi così lontano.

Nel frattempo la manifestazione dell’Anpi mette in fila le buone ragioni dell’opposizione al disegno di legge del governo. Che l’associazione dei partigiani, dentro la quale il Pd è ben presente, abbia deciso di prendere di petto il presidente del Consiglio non è affare da poco. L’Anpi prudentemente disertò il corteo del 12 ottobre 2013 che aveva motivazioni simili e si opponeva, allora, ai progetti di Enrico Letta. Il presidente Carlo Smuraglia, giurista eminente, dice che l’aggiornamento del disegno costituzionale non può arrivare a stravolgere quello originario. Gianni Ferrara e Stefano Rodotà spiegano come le proposte di Renzi si inquadrino in quel confronto tra democrazia di rappresentanza o di investitura che è il filo rosso di tutti i tentativi di riscrittura della Carta, da quarant’anni. E siccome la storia della revisione costituzionale in Italia è soprattutto una storia di aggressioni sventate, proprio Ferrara e Rodotà possono a buon titolo ricordare la proposta di legge che firmarono nel 1985 per il monocameralismo. Il coro di Renzi l’ha usato come argomento polemico. Ma allora, era craxiana, quello fu un tentativo di difendere la centralità del parlamento, reso possibile dal regime di legge elettorale proporzionale (e dall’esistenza in vita dei partiti). Esempio, raro, di difesa della Costituzione giocata all’attacco.