«Se è prematuro discutere quello che accade dopo la fiducia, immaginiamo quanto è prematuro prevedere quello che accadrà al congresso di ottobre. Mi pare che siano temi che potremo affrontare più in là, non ho voglia di insistere su argomenti che sono per addetti ai lavori». In un’intervista a Sky Tg24 in cui pronuncia l’ennesimo sostegno al governo Letta-Alfano, ieri Matteo Renzi en passant ha fatto scivolare la sua indicazione sui tempi del congresso Pd, che potrebbe presto trasformarsi nel prossimo litigio interno: assise a ottobre, dunque, rispettando i tempi statutari. E si capisce: Renzi non ha alcuna voglia di decidere subito se mettersi a capo della ricostruzione del partito bombardato dal suo quartiere generale, a sua volta diviso.E così chi oggi ragiona su come discutere la svolta del Pd è bollato di fare discorsi «da addetto ai lavori».

Del resto fino a lunedì, giorno in cui si voterà alla camera la prima fiducia, gli sguardi restano puntati sulla «ventina» (calcolo di Pippo Civati alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora: «Quelli a disagio sono 50, quelli che si manifesteranno sono la metà») di dissidenti, fra deputati e senatori. Che potrebbero scegliere di lasciare l’aula al momento del voto per attenuare l’effetto del proprio no. Così potrebbe fare Rosy Bindi e la pattuglia dei prodiani. A quel punto gli organismi dovrebbero valutare l’entità dello strappo e proporre l’eventuale sanzione a una delle fondatrici del Pd. Scelta complicata, nonostante tutto. Per un giorno i dirigenti lettiani o neolettiani hanno evitato di pronunciare la parola «espulsione», dopo aver messo a fuoco il rischio di essere equiparati a Grillo . L’ex ministro Cesare Damiano, in grande sofferenza, ha annunciato il suo sì al governissimo, rivendicando però «il diritto al dissenso». E l’ex bersaniana Alessandra Moretti ha convenuto che «le epurazioni non fanno parte della nostra cultura. Il diritto al dissenso deve essere tutelato».

Ieri mattina, il responsabile dell’organizzazione Nico Stumpo e il capogruppo alla camera Roberto Speranza hanno convocato i segretari regionali per spiegare la nuova linea, quella del ribaltone interno seguito all’impallinamento di Prodi e alle dimissioni di Bersani. L’ex segretario è intervenuto giusto il tempo di un saluto e di raccomandare «responsabilità». Una decina di interventi, per lo più allineati sul governissimo, ma senza nascondersi l’ingovernabilità della «base». E mica solo della base. «La candidatura di Marini al Quirinale divideva il Pd e non era in coerenza col percorso che aveva portato all’elezione di Boldrini e Grasso. Su Prodi è stata fatta una vigliaccata. E respingo anche la caricatura con cui si dipingono i dirigenti locali non in grado di reggere un tweet», attacca il segretario bolognese Raffaele Donini, di quell’Emilia che maldigerisce il governissimo. «Non siamo gente suggestionabile. Un gruppo dirigente che non si relaziona coi territori è un tronco secco». Donini chiede un governo breve, il ritorno spedito alle urne e l’anticipazione del congresso «per fare chiarezza».

Lo chiede anche la sinistra del partito, quella di osservanza ’turca’. E la questione diventerà il tema caldo dell’assemblea nazionale del 4 maggio che dovrà scegliere se eleggere un segretario subito, come successe nel 2008 con Franceschini dopo le dimissioni di Veltroni, o un reggente – si fa il nome dell’ex segretario Cgil Epifani – che traghetti il Pd all’assise. «Dovremmo anticipare i tempi del congresso, cambiando la regola della coincidenza fra segretario e candidato premier», spiega Francesco Verducci. «E scegliendo nel frattempo un reggente che sia di garanzia per tutti e che si impegni a non partecipare alla successiva corsa per la segreteria». Ma il cambio dello statuto sarebbe un cambio radicale della natura del Pd, soprattutto se significasse il ridimensionamento delle primarie, storicamente malvissute da un pezzo dei fondatori, ed oggi sul banco di accusa per aver promosso alle camere una leva di onorevoli più legati all’elettorato che al partito. Un cambiamento della «natura del Pd», con una ripercussione pesante anche sulle alleanze, un capitolo di cui oggi nessuno vuole parlare. La coalizione Italia bene comune è saltata, stracciata insieme al suo programma dalla svolta a ’U’ di queste ore. Un governissimo che dura finirebbe per scavare un fossato nel centrosinistra. Che nel frattempo continua a governare unito nelle amministrazioni di più di mezza Italia.