Matteo Renzi ha vinto. Anzi ha stravinto, nel Pd, come la sera del 4 dicembre 2016 «aveva straperso» nel paese, per sua stessa ammissione. Nel suo primo discorso, pronunciato sulla terrazza del terzo piano del Nazareno ma certo non improvvisato – la sua vittoria era ampiamente annunciata – c’è già un programma. Innanzitutto la blindatura del pd: sono solo formali i suoi riferimenti agli sfidanti, la sostanza l’ha spiegata ai suoi negli ‘’a parte’ : «Adesso per quattro anni è chiusa, basta polemiche interne».

Renzi torna e farà di nuovo il Renzi: se dice di essere «all’inizio di una pagina nuova», d’altro canto rivendica tutta la sua passata azione di governo anche anzi soprattutto nella parte che i suoi sfidanti hanno più sottoposto a dura revisione critica: il jobs act. Sulla legge elettorale e sulle alleanze, cavallo di battaglia del Guardasigilli Andrea Orlando, e certamente il nodo politico della prossima fase, il vecchio e nuovo segretario Pd è chiaro e persino sfottente: «faremo una larga coalizione» con la società civile, «uniremo il Pd e il paese»: ma non nomina il«centrosinistra», messaggio chiaro a Pisapia e compagni: l’unica possibilità di intesa è su un eventuale «listone», ma sotto le insegne del Pd.

Resta l’incognita delle conseguenze dell’elezione del nuovo candidato premier (del Pd) sul governerò, e sull’«amico» Gentiloni. Nella notte della vittoria Renzi ha confermato l’appoggio al premier, non molto diversamente da come aveva fatto nel dicembre 2013 nei confronti di Enrico Letta. Il cui governi però cadde poco più di due mesi dopo. A questo giro Renzi non potrà fare altrettanto: le elezioni anticipate sono quasi impraticabili, anche se la partita della legge elettorale si chiudesse in poche settimane.

Dovrà dunque rassegnarsi a una campagna elettorale lunghissima fino al febbraio 2018. Imponendo la linea al governo, come già successo su tasse e Alitalia, e tentando l’operazione di intestarsene i successi e scaricarsene gli oneri e gli errori.